Negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale
l’analfabetismo, specie nel Meridione, era alquanto diffuso. Gente laureata,
persone con un minimo di studi alle spalle, uomini di cultura erano davvero
pochi, si potevano contare – si fa per dire - sulle dita di una mano. E se di
strafalcioni linguistici se ne sentivano a iosa nelle case, nelle botteghe, nei
negozi e in ogni angolo di strada, è altrettanto vero che quel periodo fu
caratterizzato anche da geniali artigiani e operatori del commercio, come pure
da contadini dalle classiche “scarpe grosse e cervello fino”, i quali
alla sintassi e alla grammatica contrapponevano una pratica, quasi in tutti i
casi, di livello apprezzabilissimo. Per molti di costoro non c’erano le
condizioni economiche e neppure il tempo per dedicarsi agli studi. Necessità
contingenti imposero loro di trascurare la scuola e badare alla sostanza, cioè
al lavoro e al pane da portare a casa. Nessuna meraviglia né alcuna intenzione
di prendere in giro chi, per certi versi, ha dato un’impronta ben precisa al
quotidiano parlare, ricco di vocaboli travisati e di grossolane
sgrammaticature, ma infiorato da battute straordinariamente simpatiche e che
hanno fatto … storia, ovviamente in ambito locale. Vale la pena, quindi, di
citarne alcune per la loro genialità e vis comica. Ai lettori, molti dei quali
ghiotti di certi … bocconi, propongo delle “performance” di personaggi del passato che
qualcuno, ormai in età avanzata, ricorda benissimo. Diversi Lametini hanno
ancora ben nitida nella loro mente la figura, ad esempio, di quel commerciante
(se ne citano le iniziali: F.B.) che ha operato a cavallo degli anni ’40/50.
Egli è ricordato per il colorito dialetto e, in particolare, per alcune geniali
uscite verbali in particolari circostanze. Un giorno, parlava di politica con
un cliente all’interno del proprio negozio. Ricorrendo all’uso di termini
storpiati e spesso di ben altro significato, pose il seguente interrogativo:
“A cchìni vulìa i(a)llùdari ’u Duci, quandu
parràva ’i chilli chi stavìanu arrìatu le quin(z)e?”
(A chi si riferiva il Duce quando parlava di quelli che
stavano dietro le quinte?).
Un’altra sua "perla". Nei giorni successivi alla
celebrazione di un matrimonio in famiglia, per il quale aveva fatto le cose in
grande e speso anche tanto giacché di soldini ne aveva parecchi, gli venne
chiesto da un amico: “Cùmu ha
jùtu ’u ’sposalìzziu da fìghja vostra? M’hanu dittu ch’a durcirìa ha fatta
tutta Tre Misceli…” (Com’è
andato il matrimonio di vostra figlia? Ho saputo che per la fornitura dei dolci
se l’è vista il “Tre Miscele”…). E
il commerciante, disconoscendo il nome della pasticceria, precedentemente
incaricata dallo sposo per il dessert, per l’appunto l’ex bar Tre Miscele, in Corso
Nicotera, e ritenendo che l’interlocutore si riferisse a tre tipi di dolciumi,
replicò con grande enfasi: “Ma
cchi tri misceli e tri misceli...! Ci su’ stati quattru misceli, cinqu misceli,
deci misceli. Cchi vi dicu: ’na vasta gam(b)a di durci e di licùari!” (Ma che tre miscele e tre miscele!
Ci sono state quattro miscele, cinque miscele, dieci miscele. Che dico: un’ampia
gamma di dolci e di liquori!).
* * *
E cosa aggiungere al sorprendente quanto “storico” pronostico che la signora Carmela
(nome di fantasia), ignorando le sole tre possibilità (1,X,2) ammesse per ogni
singola partita inserita nella schedina del totocalcio, diede al consorte, lo
stesso commerciante di cui sopra, competente - a modo suo - anche di calcio? Lui,
che seguiva le partite radiotrasmesse e acquisiva informazioni da un quotidiano
sportivo, immancabile sul bancone del negozio, s'interessava di squadre, di
giocatori, di incontri diretti, di tattiche calcistiche e puntualmente giocava
la sua brava schedina, nonostante la sorte, nello specifico settore delle
scommesse, non gli fosse stata mai benevola! Comunque, sapeva bene – come,
del resto, tutti i giocatori del Totocalcio e di qualsiasi altro concorso a
pronostici – che, più della conoscenza, occorreva e occorre tuttora il
classico colpo di fortuna. Non capita a tutti, se non a qualcuno nato con la
classica camicia, azzeccare uno dietro l’altro tutti e tredici gli esiti delle
partite.
Il protagonista del presente aneddoto era un giocatore
tenace, oserei dire incallito, pur scommettendo, di volta in volta, una somma
quasi irrisoria. Era solito, infatti, presentare al botteghino una schedina
compilata in sole due colonne. Solo di tanto in tanto sborsava delle lire in
più, avendo inserito qualche “doppia”
o “tripla”, per degli
incontri in schedina dalle possibili, diverse soluzioni. In buona sostanza,
giocava un sistema ridottissimo. Niente di più. E, come qualcuno dei suoi ex
amici ricorda, non riusciva a totalizzare più di sette-otto punti, sui tredici
o dodici, i soli – salvo casi particolari - che consentivano agli scommettitori
di riscuotere le vincite ad essi abbinate. Una mattina d’inverno, in occasione
di una tornata calcistica, pensò di tentare la sorte per … altra via. Postosi
all’ingresso del negozio e, con in mano schedina e penna, agli sporadici
passanti chiedeva: “Bologna-Napoli?”. Il pronostico del primo interpellato
fu “due”; per il secondo la “x” era d’obbligo a fronte
dell’attesissimo derby tra laziali e romanisti. E via discorrendo. Raccolse,
quindi, le previsioni di altri concittadini sulle restanti partite. Rimaneva da
coprire una sola casella, lasciata giustamente per ultima giacché gli procurava
incertezza, essendo la gara aperta ad ogni risultato. Non vedendo arrivare
persone, alle quali chiedere il mancante pronostico, e volendo completare la
schedina prima di procedere alla ormai imminente chiusura del negozio per la
pausa pranzo, si orientò su quello della moglie Carmela, intenta a indossare il
cappotto per il rientro a casa.
“Ppi Torinu-Juventus – le
chiese, quasi a bruciapelo - cchi nùmaru ci mintu?” (Per la partita Torino-Juventus
quale numero vuoi che metta?). E
la donna, che di tutto sapeva tranne che di calcio, se ne uscì con una risposta
secca, imprevedibile e tale da far sbellicare dalle risa il simpaticissimo
consorte: “Cìnqu!… (cinque)”. Demetrio Russo
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