La superstizione è stata ed è una “dote” di tante persone, comprese quelle – e non sono certamente poche – le quali dicono di non credere ai malefici influssi di questo o quel presunto menagramo, ma che poi, in presenza di chi (anche al solo sentirne il cognome) è etichettato come persona dotata di poteri strani e ritenuta capace di irradiare sventure e quant’altro, ricorrono alle più disparate forme di scongiuri. Tirano fuori dalle tasche di tutto: corni, gnomi, gobbi, amuleti vari e via dicendo. In mancanza toccano ferro, possibilmente quello di cavallo, oppure – e la cosa è abbastanza in uso – ricorrono ai propri classici … bottoni. Per non parlare poi di certi scaramantici i quali, convinti che determinati oggetti e animali vadano presi con le classiche pinze o, meglio ancora, da tenere possibilmente lontano un miglio, in alcune circostanze hanno dei comportamenti a dir poco inconsueti. Se, tanto per dirne una, un gatto nero attraversa loro la strada mentre viaggiano in auto, fanno subito marcia indietro e preferiscono percorrere vie alternative, anche se più lunghe e forse anche più trafficate, per raggiungere la destinazione stabilita. Come pure, il superstizioso che, camminando lungo il marciapiede, s'imbatte in una scala appoggiata al muro, puntualmente evita di passarvi sotto. E molti lametini, ovviamente di una certa età, ne sanno qualcosa, nel senso che pure dalle loro parti non sono mancate, e non mancano tutt'ora, persone di tal fatta. Ad esempio, non hanno dimenticato un noto professore di francese degli anni '50, il quale non voleva assolutamente che si nominasse il numero 17 e pretendeva che lo si sostituisse, in caso di necessità, con "16+1".
Per la verità sono pochi coloro che, presi da tali pregiudizi
o credenze popolari, ammettono apertamente il proprio ... debole; mentre molti
di essi a parole lo negano, ma nei fatti sono dei superstiziosi, eccome!
Costoro dicono: “No, non credo a certe cose”, però poi attivano ogni
“antidoto” contro eventuali iatture o cose del genere; in definitiva, fanno
ricorso a tutto ciò che hanno a portata di mano purché considerato un vero e
proprio parapioggia alle temute … radiazioni malefiche del presunto menagramo.
Per essi è proprio calzante il motto “non è vero, ma ci credo” che
il grande Antonio De Curtis, alias Totò, ha coniato e reso popolarissimo.
Alle due categorie, cioè a quella dei superstiziosi
confessi e all’altra comprendente coloro che si nascondono dietro il paravento
del “non è vero”, appartengono persone di entrambi i sessi, di ogni ordine e
grado, vecchi e giovani, colti e meno colti. E tale fenomeno non è figlio di
questa o di tal altra epoca. E' sempre esistito. Oggi probabilmente è più
contenuto perché non trova nel ridimensionato analfabetismo fertile terreno,
come per il passato.
Di aneddoti e storielle riguardanti tale mondo, quello dei
superstiziosi, sono piene le fosse. Alcuni episodi, ascritti a gente di tal
fatta, sono davvero curiosi e umoristicamente gradevoli. Ne riferisco alcuni
avvenuti vari lustri addietro in un ufficio cittadino, nell’ex comune di
Nicastro. Ne è stato protagonista un anziano impiegato, V. P. (si citano le
sole iniziali), in seguito chiamato per comodità “Don Vincenzo”, il quale del
proprio credo in materia di superstizioni e di scaramanzie non ha mai fatto
mistero.
Veniamo al fatto. Con lui nel reparto lavora anche Domenico
(nome fittizio), un giovane cordiale e affettuoso, ma anche portato
all’umorismo e a fare qualche scherzo ai colleghi, sempre nei limiti del lecito
e del rispetto, specie con i più anziani. Una mattina don Vincenzo chiede una
cortesia al giovane, cui è legato da tanto affetto e che stima
professionalmente al punto di parlargli col “voi” nonostante la minore età.
“Dicìtimmi, vùa ch’u sapìti: cchi numaru 'i telefunu
teni 'a Stazioni 'i Nicastru?” (Ditemi,
voi che certamente lo ricorderete, qual è il numero di telefono della stazione
ferroviaria di Nicastro?), chiede senza perdere tempo a sfogliare l’elenco
nella ricerca diretta. E l’altro, Domenico, che alla superstizione non ha mai
creduto, volendo combinare un simpatico scherzo al collega e valutarne la
reazione in una situazione che qualsiasi persona scaramantica vorrebbe evitare,
gli fornisce questo numero: 21963.
Afferrata la cornetta, impostate le cifre sul disco
dell’apparecchio e avuta conferma che all’altro capo del filo c’è qualcuno,
l’anziano impiegato apre la conversazione: “Pronto,
pronto. E’ la stazione ferroviaria di Nicastro?”. “No – risponde l’interlocutore – qui è il cimitero”. A questo punto
don Vincenzo, come se morso da una vipera, schiaccia la cornetta nell’apposita
sede e sbotta in uno stizzoso “Alla
larga!”. Subito la sua mano
sinistra ricorre prudenzialmente ai classici … bottoni, mentre i muscoli del
viso si contraggono in una smorfia di tensione, quasi di terrore misto a
rabbia. L’imbarazzante situazione si protrae solo per alcuni minuti: lo
scaramantico don Vincenzo fa buon viso a cattivo gioco e si adegua – si fa per
dire - al clima di distensione e di risate, in cui sono coinvolti tutti gli
altri dipendenti.
A distanza di circa un mese la simpatica scenetta in certo
qual modo si ripete. L'anziano impiegato ha necessità di mettersi in contatto
con altro utente della società telefonica e accenna la solita domanda al
giovane collega. Prima di aver formulato in tutto e per tutto la richiesta,
memore dello scherzo precedente, Don Vincenzo la ritira subito giustificandosi:
“No, no. 'U nùmaru 'ullu vùajjhu cchiù sapìri. Mu trùavu iju supra l’elencu,
ch’à vùa mi facìti certi schìarzi! (No,
no. Non voglio più saperlo. Il numero lo trovo io sull’elenco, perché voi mi
fate certi scherzi!)”.
Sfoglia l’elenco e rileva il numero cercato che compone
all’apparecchio. Non ottenendo risposta e con la cornetta ancora nella mano
sinistra borbotta: “Chi fatigatùri! ‘U telefunu sona e ’un rispùndinu…(Che
lavoratori! Il telefono squilla e nessuno risponde!)”. In realtà l’ufficio di
quell’utente ha ritardato l’apertura pomeridiana di alcuni minuti.
Domenico, strizzando l’occhio ad altro dipendente, coglie l’occasione
per ripetere lo scherzo al superstizioso collega, cui chiede: “Forse avrete
sbagliato nel digitare il numero. Ditemi quale è”. Mentre don Vincenzo, tenendo sempre in
mano la cornetta, scandisce il numero dell’ufficio da contattare, il giovane impiegato
nel digitarlo ne sostituisce le cifre con quelle del … famoso 21963. Terminata
la digitazione Domenico invita il collega ad avviare la conversazione con
l'utente cercato. “Pronto, parlo con l’officina Olivetti?" chiede
don Vincenzo. E dall’altra parte del filo: “No,
avete sbagliato numero. Qui è il cimitero”.
“N’atra vòta!” (un'altra
volta!) è la reazione del chiamante rimasto per un attimo quasi impietrito e
con identico stato d’animo della volta precedente. Poi, ritrovate l’abituale
compostezza e un'apparente serenità, con un mezzo sorriso a fior di labbra
aggiunge: “Jativìndi, mancu
'mu vi vijhu! Mò ’ndavanzi ccù vua ’un ci càjhu cchiù... (Andatevene, non
voglio nemmeno vedervi! D’ora in avanti con voi non ci cascherò più) ”. Demetrio Russo
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