
Non mi sono certo mancate le occasioni di
frequentare Don Diego Menniti,
falernese di nascita e lametino di adozione, primario del reparto di ortopedia
nell'ospedale in Lamezia e chirurgo molto noto e apprezzato sia in Calabria che
fuori. I nostri rapporti, erano dovuti quasi esclusivamente alla comune
attività e passione sportiva: lui quale presidente della Vigor Lamezia Calcio ed
io di cronista sportivo della "Gazzetta del Sud". I contatti erano
quasi giornalieri, specie nel periodo estivo a cavallo di due stagioni
agonistiche. Difatti , andavo a trovarlo nella sua villa in località Cartolano,
tra Falerna Lido e Nocera Scalo, per apprendere le ultime novità in materia di
programmi e di campagna cessioni-acquisti. E lì l’accoglienza è stata sempre
ispirata da grande cordialità e affettuosa ospitalità. Fisico robusto, un po’
di pancetta, faccia rotonda e stempiata, labbro inferiore alquanto pronunciato
e un occhio non perfettamente in linea con l’altro, pochi capelli brizzolati
sulle tempie, portamento signorile, carattere gioviale, battuta pronta sulle
labbra.
Era uomo e professionista di grosso
spessore, dotato di grande umanità e di vasta cultura. Tra le altre cose, amava
sovente attingere ad autori classici e declamare frasi latine perfettamente
calzanti con situazioni e/o discorsi particolari. “Excusatio non petita, accusatio
manifesta” (di fronte a
scuse non richieste, la colpa è palese), era
una delle ricorrenti che rivolgeva bonariamente a chi si preoccupava di trovare
plausibili giustificazioni a ritardi o inadempienze nei rapporti con lui. Amava
tanto il calcio per il quale ha profuso molto, sia in termini di tempo sia di
energie e di denaro. Era anche uno dei fedelissimi al motto del grande Totò:
“Non è vero ma ci credo”. Credeva - almeno per come sosteneva e si comportava -
al malocchio e ne temeva gli influssi. Quando ne percepiva l’ombra o meglio ’a
puzza, ricorreva alle opportune contromisure; spesso a quelle personali più a
portata di mano. Per neutralizzare ipotetiche quanto temutissime “magarìe”
(iatture) di qualche menagramo - nomea appiccicata sulle spalle di alcuni
personaggi locali - correva a ripari dal presunto potere … sterilizzante.
Almeno così sperava, tra il serio e il faceto.
Non so se in altri settori della vita
quotidiana usasse ricorrere a simili espedienti, ma in quello calcistico non
perdeva certo occasione per farlo. E così, prima di ogni partita, una puntatina
a centrocampo e nelle aree di porta era d’obbligo farla per spargervi, secondo
un rituale tutto suo, manciate di bianco salgemma. Accompagnava il gesto
anti-jattura con la frase “il fine giustifica i mezzi” di machiavelliana memoria. A far da
spalla in questa scaramantica cerimonia era solitamente il prof. Peppino
Cristiano, altro dirigente vigorino appartenente alla medesima corrente di
pensiero in fatto di superstizione; mentre dai bordi del campo il direttore
sportivo Nicola Samele e i consiglieri Angelo Falvo e Michele Mercuri
osservavano la scena con malcelato compiacimento. Il prof. Menniti, da buon
adepto, era altresì sensibile a circostanze che avessero - a suo giudizio -
parvenza di portafortuna. Ne cito una in particolare. Don Diego ordinò a un
gruppetto di amici di partecipare tutti i martedì sera a una cena-incontro,
pagamento … alla romana (ognuno
per sé), nel solito
ristorante in Falerna Lido.
Era convinto che la cosa - almeno così
sosteneva - portasse bene alla squadra di calcio, sulla falsariga della
splendida vittoria per due a uno da essa ottenuta al “Celeste” di Messina sulla
formazione di casa. In quell’occasione la trasferta era stata preceduta per
l’appunto da un’occasionale cenetta del gruppo e il professor Menniti valutò la
circostanza di buon auspicio, alla stessa stregua di un portafortuna. E così
l’incontro conviviale del martedì divenne una piacevole e scaramantica consuetudine,
anche se poi non sempre le gare della Vigor Lamezia ne furono favorevolmente
... condizionate. La parola d’ordine era: stesso giorno, stessa cena, stesso
ristorante, stessi partecipanti, stesso menù. A quei periodici incontri
prendevano parte, come ospiti, due strumentisti d’eccezione: l’imprenditore
edile Giuseppe Sesto alla fisarmonica e il compianto messo municipale e stimato
poeta dialettale, Salvatore Borelli alla chitarra. Quest’ultimo, tra l’altro,
era dotato di uno spirito di osservazione e di una vena creativa straordinari.
Ne è prova la poesia in vernacolo “A cumbrìccula du marti” (la
combriccola del martedì) inserita
dal Borelli nel libro “Cumu ‘nu sùannu” (come un sogno) e
dedicata proprio a quella comitiva e a quelle circostanze.
Un altro simpatico aneddoto, raccontato
dallo stesso prof. Menniti, ebbe luogo tanti anni fa in una corsia
dell’ospedale lametino, che allora era dislocato nel fabbricato adiacente al
Santuario di S. Antonio. Una mattina, mentre eseguiva la prevista visita ai
ricoverati nel reparto di ortopedia, notò la presenza su un lettino di un nuovo
degente, un giovane ricoverato la sera precedente per sospetta frattura alla
gamba destra a seguito d’incidente stradale. E domandò a uno degli assistenti
se erano stati eseguiti gli esami radiologici. Avuta risposta affermativa, il
prof. Menniti chiese di avere in visione la lastra. L’infermiere che spingeva
il carrello contenente cartelle, radiografie e altro materiale sanitario,
intervenne prontamente:
- “Prifissù, senza ch’a vidìti. L’haiju
già guardata iju ed è tutt'a postu. Ruttùri ’un c'indè” (Professore, non c’è bisogno che la
guardiate. L’ho esaminata io ed è tutto a posto, non vi sono fratture). Allora Don Diego, in tono scherzoso ma
con l’intenzione di mettere in chiaro determinate cose, chiese all’infermiere:
- “A quale università ti sei laureato,
perché in quella da me frequentata non ti ho mai visto?”.
Quello capì l’antifona, prese la cartella
con la lastra e la porse al primario. Il professore, per non far pesare più di
tanto la gaffe del pur bravo paramedico e volendo togliere questi da una
situazione di evidente imbarazzo, diede una rapida occhiata alla radiografia e,
nel restituirgliela, aggiunse: “Avevi ragione, non ci sono fratture. Meglio
così”.
E si spostò col gruppo verso altro
paziente. à Demetrio Russo
Sono il nipote del prof Diego Menniti... Mio nonno non credeva in nessun malocchio; era cattolico praticante!!!
RispondiEliminaCiao, sono il vero nipote di Diego Menniti, chiamato Diego Menniti. Volevo risponderti che mio nonno era cattolico e non so se credeva del Malocchio.
EliminaCiò che lei afferma sono solo aspetti superficiali della vita di una persona che lei conosceva ben poco sig. Russo...
RispondiEliminaNessuna intenzione di scrivere la biografia dello stimatissimo prof. Diego Menniti che non conoscevo abbastanza, ma sicuramente più del nipote in considerazione dell’età che questi aveva prima del decesso del congiunto; né metterne in discussione la fede cristiana che, in tantissimi casi, convive con chi del malocchio, per scherzo o per vero, mostra di appartenere al noto motto “non è vero, ma ci credo”. Comunque, prima di parlare di inesattezze e di superficialità, il giovane Menniti avrebbe fatto bene a sentire anche una sola delle persone citate nell’articolo (loro hanno di certo conosciuto il professore meglio di entrambi) per avere conferma di quanto sostenuto dal sottoscritto.
RispondiEliminaQuesto costa l’onorario del fratello Diego
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