
E’ convinzione alquanto diffusa ormai che quasi tutti gli
ospedali del Sud non abbiano una buona fama derivante, a parere di molti, da
clamorosi casi di mala sanità spesso dovuti a mancanza di attrezzature
adeguate, a personale professionalmente mediocre, a errori o disattenzioni di
chirurghi e paramedici, a ritardi nel prestare soccorso, ecc. Per amore di
verità, anche al Nord non possono certamente menar vanto di gestire senza
pecche la salute pubblica, giacché episodi di vario genere, gravi e clamorosi,
hanno trovato sede in alcune di quelle strutture, come quotidiani e
telegiornali nazionali hanno riportato quei fatti di cronaca con dovizia di
particolari. Quante persone, sperando di trovare rimedi a piccoli o seri
problemi, si sono dovute sottoporre a interventi chirurgici uscendone in
condizioni ben più serie per dimenticanza di garze, di ferri nelle zone
d’intervento, oppure per lesioni di organi sani adiacenti a quelli operati o da
operare? E quanti degenti sono stati portati via senza vita da strutture
sanitarie nelle quali erano stati ricoverati per malesseri di poco conto? Per
non parlare di sperperi, di operazioni di natura economica poco pulite ecc., di
acquisti di macchinari costosi e non utilizzati. Aspetti negativi, questi, che
hanno dimora in ogni luogo, sia al Sud come al Nord.
In parole povere, al Nord come al Sud in fatto di mala
sanità si naviga sulla stessa barca, o quasi. Nel settentrione, per la verità,
non sono poi numerosissimi gli istituti di medicina, sia pubblici sia privati,
che meritano di essere additati ad esempio per professionalità del personale
medico e paramedico, per disponibilità di macchinari all'avanguardia, per
lodevole trattamento riservato ai degenti, e così via. Tuttavia non è da
fare di ogni erba un fascio. In tanti centri, da queste e da quelle parti, la
sanità funziona abbastanza bene.
L’ospedale lametino, a onore del vero, non è certamente
nella lista dei migliori. Le deficienze e i problemi non mancano in tale
struttura, però è indubbio che essa sia dipinta più grigia di quanto, in
effetti, lo sia. In realtà, pur registrando un dato statisticamente
insignificante in materia d’interventi mal riusciti o di episodi di cattiva
gestione, si trova sulle spalle una brutta nomea. Per dirla in gergo locale
“’na brutta ’ndumminnàta” (una pessima etichetta), che è sicuramente impropria,
almeno eccessiva, in rapporto a quanto di negativo è stato purtroppo registrato
fino a oggi.
Tutto questo perché, se qualcosa non è andata per il giusto
verso in uno o più interventi chirurgici, l’"incidente" non è stato
mai commentato in rapporto alla sua effettiva gravità, bensì alimentato e
ingigantito a dismisura dai “passa-parola”. Tra l’altro, è capitato che un caso
di mala sanità, di cui si è reso responsabile un determinato reparto, sia stato
attribuito sommariamente all’intero complesso ospedaliero. E non sta bene. Tale
giudizio allargato alla struttura fa "indossare" la maglia nera pure
a quei reparti e a quelle risorse umane, la cui operatività è obiettivamente
inappuntabile!
Nascono così dei pregiudizi, invero alquanto diffusi, che
trovano linfa nel fatto che spesso è data cassa di risonanza a sporadici (per
fortuna) casi di mala sanità, mentre passano sotto silenzio - salvo rare
eccezioni - i tanti “miracoli” operati da medici, duramente impegnati nel loro quotidiano
lavoro svolto con professionalità, con competenza e con encomiabile dedizione,
specialmente in ben individuati reparti o divisioni.
Di persone affette da tali pregiudizi ne stanno a bizzeffe
dappertutto. E’ da annoverare tra esse, almeno per quanto emerso nella seguente
circostanza, la moglie di un pensionato ricoverata in ortopedia per la frattura
a un piede. Questo il fatto, avvenuto diversi anni addietro e riferitoci dal
coniuge della protagonista: l’anziana signora una mattina, scendendo le scale
di casa, cade e si fa male a un piede. Soccorsa e trasportata in ospedale,
l’arto interessato è sottoposto a radiografia, nella quale appare evidente
l'urgenza di un intervento chirurgico.
L’inferma ha una figlia laureata in medicina, che presta
servizio presso un ospedale piemontese. La dottoressa, informata dell’incidente
occorso alla madre, la sente al telefono e la tranquillizza con la promessa di
fare subito un salto in Calabria. La giovane conosce i giudizi della genitrice
sull’efficienza dell'ospedale lametino, in linea con la cattiva fama che da
qualche tempo lo etichetta; giudizi rimarcati dal rifiuto della degente di
farsi operare in tale nosocomio. E sua figlia, per non contraddirla, assicura
che la farà operare al Nord, nella struttura presso la quale lei lavora e che
il trasferimento nell’istituto piemontese sarebbe stato eseguito non appena le
condizioni dell’inferma lo avrebbero consentito. L’inferma ritrova un po’ di
serenità, anche nella prospettiva dell'assistenza filiale durante la degenza in
ospedale a Torino.
L’età e lo stato di salute della signora, però, ne
sconsigliano il trasporto in quella struttura, tra le altre cose alquanto
distante. I familiari convengono con i sanitari lametini sul fatto che non
s’intravedono altre soluzioni in alternativa all’intervento chirurgico nel
reparto di ortopedia, in loco. La dottoressa, giunta in Calabria, con il padre
concorda sull’opportunità di tenere la paziente all’oscuro di tale decisione,
perché resti tranquilla e rilassata il più possibile. La mattina del giorno
fissato per l’intervento chirurgico, la degente è informata che si stanno
predisponendo le cose per il suo trasferimento in Piemonte e che è
indispensabile l’anestesia per rendere sopportabile il viaggio in ambulanza. Un
infermiere le pratica la puntura di pre-anestesia e poco dopo la porta in
barella in sala operatoria, dove ha luogo l’intervento chirurgico. L’operazione
è perfettamente riuscita. L’inferma è ricondotta in corsia, ancora sotto
l’effetto dell’anestetico. La figlia, seduta accanto al lettino, attende che la
madre riprenda conoscenza, tenendole tra le sue la mano sinistra, che accarezza
amorevolmente.
Svegliatasi, la degente, prima di guardarsi attorno e
rendersi conto di trovarsi nella stessa cameretta lasciata ore prima, incrocia
compiaciuta lo sguardo della figlia che la rassicura sull’esito
dell’intervento. E lei, convinta di trovarsi in una corsia dell’ospedale
torinese, le dice compiaciuta e con un filo di voce: “Menu mali ch’a m’avìti purtàtu a
Torino; a ’st’ura a Nicàstru m’avèranu massacràtu …” (Fortuna che mi avete fatto operare a
Torino, altrimenti a Lamezia, a quest’ora, mi avrebbero massacrato). Demetrio
Russo
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