
Anni fa, come molti probabilmente ricorderanno, la Scuola
non era alla portata di tutti per una questione di mezzi economici, per cui la
possibilità di studiare era prerogativa di pochi. Dopo le prime classi
elementari, molti ragazzi erano costretti ad abbandonare lo studio e andare in
campagna per dare una mano ai genitori nel lavoro dei campi; altri finivano
nelle botteghe di artigiani ad apprender mestiere, altri ancora andavano a
garzone nei vari negozi della città. Erano queste le strade solitamente
imboccate dai giovani appartenenti a famiglie meno abbienti. Fabbri, meccanici,
falegnami, segantini, vasai ecc., accoglievano uno o più ragazzi nella propria
bottega per insegnare loro l’arte. Il mestiere quei ragazzi riuscivano ad
apprenderlo mediamente in poco tempo, perché “i mastri” erano di primissimo
livello e, soprattutto, bravi nel trasmettere ai discepoli le proprie
conoscenze e le proprie esperienze.
Le vie e le piazze cittadine erano piene di botteghe e di
negozi allestiti alla meglio e, in alcuni casi, in locali talmente angusti che
in quattro non ci si stava. Tuttavia quegli artigiani hanno fatto pulsare cuore
e polmoni dell’attività e i tanti giovani, andati a bottega da loro, una volta
completato l’apprendimento, si mettevano in proprio operando con competenza e
con apprezzabili successi in termini di clientela. Durante la permanenza nel
laboratorio dei loro “insegnanti”, i ragazzi raramente ricevevano salario o
busta paga; soltanto qualche regalia in occasione di feste importanti, anche
patronali. I più fortunati rimediavano puntualmente una paghetta, cioè pochi
spiccioli, a fine di settimana; denaro atteso, comunque, con gioia perché
consentiva loro di togliersi qualche sfizio.
In quella fase dell’immediato dopoguerra ad aver aperto
libro o riempito quaderni di asticelle o di vocali erano stati, dunque, in
pochi. Alcuni lasciarono gli studi dopo qualche anno di frequenza: chi per
scarsa voglia, chi per necessità non riuscendo a conciliare la scuola con il
dover dare una mano in famiglia. Alcuni stringevano i denti per arrivare fino
al completamento del quinquennio e conseguire la licenza di quinta elementare
ritenuta allora un primo, importante traguardo scolastico. Si potevano contare
sulle dita di una mano coloro i quali, pur appartenendo a classi sociali meno
abbienti, frequentavano tutto il ciclo delle scuole elementari, apprendendo la
madre lingua e sapendo far di conto. Qualcuno tra costoro, da parenti e amici
per lo più analfabeti, era spesso indicato con la qualificante etichetta: “È
uno che ha studiato!”.
A parte queste e altre limitate eccezioni, tantissimi
cittadini di quell’epoca non sapevano né leggere né scrivere, avendo preferito
o dovuto preferire allo studio il lavoro dei campi, le attività artigianali
oppure il commercio, per cui essi avevano poca dimestichezza con la lingua
italiana. E talvolta, per non dire spesso, nel comune parlare le sparavano
proprio grosse, in barba alla sintassi e alla grammatica, ma senza che di ciò
alcuno ne rimanesse stupito o ne facesse oggetto di scherno. Quelle persone, a
corto di studi, erano rispettate per la competenza e l’esperienza maturate nel
lavoro, per la forte personalità e, soprattutto, perché maestri d’arte e di
vita per tanti ragazzi.
Il vecchio adagio “scarpe grosse e cervello fino” a
esse calzava proprio a pennello. Alcuni aneddoti e strafalcioni, attribuiti a
personaggi di quel periodo, sono rimasti famosi e li propongo, non certo per
mettere in berlina chi dalla Scuola ha potuto o voluto avere poco e niente,
quanto invece per dare una connotazione ben precisa a gente che ha lasciato
indelebile traccia della Nicastro dei bei ma anche tanto difficili tempi,
suscitando ricordi e sentimenti di particolare gradimento ed emotività. E a
buon diritto queste figure, di cui si omettono i nomi a conferma del rispetto
loro dovuto, trovano posto nella memoria di chi le ricorda con stima e
simpatia, e le considera “storiche” per la città e il suo circondario. Chi
sono? Niente nomi, dunque, solo alcune loro “perle”.
Il tifoso e l’arancia
Un tifoso della vecchia e gloriosa squadra di calcio Vigor
Nicastro, con altri amici al seguito della squadra in trasferta, all’ora di
pranzo entra in un ristorante di Bagnara Calabra. Dopo aver gustato una “pepata
di cozze” come antipasto, per primo un abbondante piatto di spaghetti alle
vongole veraci (una specialità di quel centro sul Tirreno) e per secondo una
ricca frittura di pesce, il tutto annaffiato da un soave vinello bianco, chiede
al cameriere:
-“Ppì frutta cch’avìti? Iju vulèra ‘n’aràngu…”
(Per frutta cosa avete? Io gradirei un’arancia...). Il valente artigiano apprende che
il ristorante quel giorno non dispone di molta varietà di frutta essendo
domenica e i mercati ortofrutticoli chiusi. Sono rimaste solo delle pere e
delle mele, la qualcosa lo contraria alquanto. Si alza in piedi, volge lo
sguardo sugli altri commensali quasi per cercare solidarietà in ciò che sta per
dire, e con grande disappunto e stupore, in un misto d’italiano e dialetto,
afferma ad alta voce:
“Cumu! In un paese arangìfero cùmu Bagnara ’un avìti
nemmènu ‘nu purtugàllu...!”
(Come! In un paese produttore di agrumi come Bagnara,
non avete neppure un’arancia!).
E aggiunge: “E
allùra allu Nordu cc’avìssiru ‘i diri, ch’a chiànti d’aràngu ’un dànu mmai
vistu e li purtugàlli alli tàvuli l’hanu ‘u stessu?”
(E allora al Nord cosa dovrebbero dire, loro che alberi di
arance non ne hanno mai visti, eppure sui loro tavoli quel frutto non manca
mai?).
Il fattorino e la lingua latina
Un anziano fattorino originario di Gizzeria, dipendente di
una ditta di autolinee, fisico alto e snello ma lievemente incurvato dal peso
degli anni, al solito “Come si va?” che
gli veniva rivolto come saluto da conoscenti incontrati per strada o in qualche
ufficio pubblico, rispondeva con l'abituale espressione di serietà:
- “ Malo
tempo curras...”.Non si è mai capito se questa sua frase, in latino
maccheronico, traesse origine da un personale pessimismo o fosse da
considerarsi una semplice battuta rubacchiata alla madre lingua e brutalmente
storpiata.
La moglie e lo zoccolo da spiaggia
Un operaio residente una frazione montana del Lametino,
indicato col nome di Giovanni, una domenica mattina del mese di agosto, a bordo
della propria “600 Multipla”, condusse al mare di Gizzeria Lido la propria
famigliola composta dalla moglie Enza e da due bambine, Federica e Antonella
(tutti nomi di fantasia). Arrivato in spiaggia e parcheggiata l'autovettura,
tirò fuori dal bagagliaio l’ombrellone e lo sistemò a qualche metro dalla
battigia, in un tratto abbastanza affollato tra Capo Suvero e Falerna Lido.
Fece poi la spola dall'ombrellone all'auto per trasferire quanto contenuto nel
bagagliaio per le necessità di quella mattinata. All'ora del pranzo la
famigliola si accinse a far rientro a casa. La donna si prese cura delle
figlie, mentre Giovanni raccolse ombrellone, teli, borsa e quant'altro da
ricaricare nella macchina. Nel momento di partire, proprio mentre l'operaio
stava per avviare il motore, intervenne la moglie che lo informò di aver
dimenticato sulla spiaggia nella fretta uno degli zoccoli, invitandolo a
tornare indietro per recuperarlo. Giovanni rifece il percorso, seguendo le orme
lasciate poco prima sulla sabbia, fino al punto in cui era stato alloggiato
l'ombrellone. Guardò a destra e a manca, ma dello zoccolo nessuna traccia,
forse inavvertitamente spostato da qualcuno dei bagnanti presenti in zona.
Rivolto alle persone vicine, chiese speranzoso: "Avèravu ppi casu vidùtu 'a
zòccola 'i mugghjèrma?"
(Avete, per caso, visto "la zoccola"- termine
dialettale per indicare una donna di malaffare - di mia moglie?). Demetrio Russo
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