22 - CURIOSITA' E " PERLE " LINGUISTICHE



Anni fa, come molti probabilmente ricorderanno, la Scuola non era alla portata di tutti per una questione di mezzi economici, per cui la possibilità di studiare era prerogativa di pochi. Dopo le prime classi elementari, molti ragazzi erano costretti ad abbandonare lo studio e andare in campagna per dare una mano ai genitori nel lavoro dei campi; altri finivano nelle botteghe di artigiani ad apprender mestiere, altri ancora andavano a garzone nei vari negozi della città. Erano queste le strade solitamente imboccate dai giovani appartenenti a famiglie meno abbienti. Fabbri, meccanici, falegnami, segantini, vasai ecc., accoglievano uno o più ragazzi nella propria bottega per insegnare loro l’arte. Il mestiere quei ragazzi riuscivano ad apprenderlo mediamente in poco tempo, perché “i mastri” erano di primissimo livello e, soprattutto, bravi nel trasmettere ai discepoli le proprie conoscenze e le proprie esperienze.
Le vie e le piazze cittadine erano piene di botteghe e di negozi allestiti alla meglio e, in alcuni casi, in locali talmente angusti che in quattro non ci si stava. Tuttavia quegli artigiani hanno fatto pulsare cuore e polmoni dell’attività e i tanti giovani, andati a bottega da loro, una volta completato l’apprendimento, si mettevano in proprio operando con competenza e con apprezzabili successi in termini di clientela. Durante la permanenza nel laboratorio dei loro “insegnanti”, i ragazzi raramente ricevevano salario o busta paga; soltanto qualche regalia in occasione di feste importanti, anche patronali. I più fortunati rimediavano puntualmente una paghetta, cioè pochi spiccioli, a fine di settimana; denaro atteso, comunque, con gioia perché consentiva loro di togliersi qualche sfizio.
In quella fase dell’immediato dopoguerra ad aver aperto libro o riempito quaderni di asticelle o di vocali erano stati, dunque, in pochi. Alcuni lasciarono gli studi dopo qualche anno di frequenza: chi per scarsa voglia, chi per necessità non riuscendo a conciliare la scuola con il dover dare una mano in famiglia. Alcuni stringevano i denti per arrivare fino al completamento del quinquennio e conseguire la licenza di quinta elementare ritenuta allora un primo, importante traguardo scolastico. Si potevano contare sulle dita di una mano coloro i quali, pur appartenendo a classi sociali meno abbienti, frequentavano tutto il ciclo delle scuole elementari, apprendendo la madre lingua e sapendo far di conto. Qualcuno tra costoro, da parenti e amici per lo più analfabeti, era spesso indicato con la qualificante etichetta: “È uno che ha studiato!”.
A parte queste e altre limitate eccezioni, tantissimi cittadini di quell’epoca non sapevano né leggere né scrivere, avendo preferito o dovuto preferire allo studio il lavoro dei campi, le attività artigianali oppure il commercio, per cui essi avevano poca dimestichezza con la lingua italiana. E talvolta, per non dire spesso, nel comune parlare le sparavano proprio grosse, in barba alla sintassi e alla grammatica, ma senza che di ciò alcuno ne rimanesse stupito o ne facesse oggetto di scherno. Quelle persone, a corto di studi, erano rispettate per la competenza e l’esperienza maturate nel lavoro, per la forte personalità e, soprattutto, perché maestri d’arte e di vita per tanti ragazzi.
Il vecchio adagio “scarpe grosse e cervello fino” a esse calzava proprio a pennello. Alcuni aneddoti e strafalcioni, attribuiti a personaggi di quel periodo, sono rimasti famosi e li propongo, non certo per mettere in berlina chi dalla Scuola ha potuto o voluto avere poco e niente, quanto invece per dare una connotazione ben precisa a gente che ha lasciato indelebile traccia della Nicastro dei bei ma anche tanto difficili tempi, suscitando ricordi e sentimenti di particolare gradimento ed emotività. E a buon diritto queste figure, di cui si omettono i nomi a conferma del rispetto loro dovuto, trovano posto nella memoria di chi le ricorda con stima e simpatia, e le considera “storiche” per la città e il suo circondario. Chi sono? Niente nomi, dunque, solo alcune loro “perle”.

 Il tifoso e l’arancia
Un tifoso della vecchia e gloriosa squadra di calcio Vigor Nicastro, con altri amici al seguito della squadra in trasferta, all’ora di pranzo entra in un ristorante di Bagnara Calabra. Dopo aver gustato una “pepata di cozze” come antipasto, per primo un abbondante piatto di spaghetti alle vongole veraci (una specialità di quel centro sul Tirreno) e per secondo una ricca frittura di pesce, il tutto annaffiato da un soave vinello bianco, chiede al cameriere:
-“Ppì frutta cch’avìti? Iju vulèra ‘n’aràngu…” 
(Per frutta cosa avete? Io gradirei un’arancia...). Il valente artigiano apprende che il ristorante quel giorno non dispone di molta varietà di frutta essendo domenica e i mercati ortofrutticoli chiusi. Sono rimaste solo delle pere e delle mele, la qualcosa lo contraria alquanto. Si alza in piedi, volge lo sguardo sugli altri commensali quasi per cercare solidarietà in ciò che sta per dire, e con grande disappunto e stupore, in un misto d’italiano e dialetto, afferma ad alta voce:
“Cumu! In un paese arangìfero cùmu Bagnara ’un avìti nemmènu ‘nu purtugàllu...!” 
(Come! In un paese produttore di agrumi come Bagnara, non avete neppure un’arancia!).
E aggiunge: “E allùra allu Nordu cc’avìssiru ‘i diri, ch’a chiànti d’aràngu ’un dànu mmai vistu e li purtugàlli alli tàvuli l’hanu ‘u stessu?”
 (E allora al Nord cosa dovrebbero dire, loro che alberi di arance non ne hanno mai visti, eppure sui loro tavoli quel frutto non manca mai?).

Il fattorino e la lingua latina
Un anziano fattorino originario di Gizzeria, dipendente di una ditta di autolinee, fisico alto e snello ma lievemente incurvato dal peso degli anni, al solito “Come si va?” che gli veniva rivolto come saluto da conoscenti incontrati per strada o in qualche ufficio pubblico, rispondeva con l'abituale espressione di serietà:
- “ Malo tempo curras...”.Non si è mai capito se questa sua frase, in latino maccheronico, traesse origine da un personale pessimismo o fosse da considerarsi una semplice battuta rubacchiata alla madre lingua e brutalmente storpiata.

 La moglie e lo zoccolo da spiaggia
Un operaio residente una frazione montana del Lametino, indicato col nome di Giovanni, una domenica mattina del mese di agosto, a bordo della propria “600 Multipla”, condusse al mare di Gizzeria Lido la propria famigliola composta dalla moglie Enza e da due bambine, Federica e Antonella (tutti nomi di fantasia). Arrivato in spiaggia e parcheggiata l'autovettura, tirò fuori dal bagagliaio l’ombrellone e lo sistemò a qualche metro dalla battigia, in un tratto abbastanza affollato tra Capo Suvero e Falerna Lido. Fece poi la spola dall'ombrellone all'auto per trasferire quanto contenuto nel bagagliaio per le necessità di quella mattinata. All'ora del pranzo la famigliola si accinse a far rientro a casa. La donna si prese cura delle figlie, mentre Giovanni raccolse ombrellone, teli, borsa e quant'altro da ricaricare nella macchina. Nel momento di partire, proprio mentre l'operaio stava per avviare il motore, intervenne la moglie che lo informò di aver dimenticato sulla spiaggia nella fretta uno degli zoccoli, invitandolo a tornare indietro per recuperarlo. Giovanni rifece il percorso, seguendo le orme lasciate poco prima sulla sabbia, fino al punto in cui era stato alloggiato l'ombrellone. Guardò a destra e a manca, ma dello zoccolo nessuna traccia, forse inavvertitamente spostato da qualcuno dei bagnanti presenti in zona. Rivolto alle persone vicine, chiese speranzoso: "Avèravu ppi casu vidùtu 'a zòccola 'i mugghjèrma?"
(Avete, per caso, visto "la zoccola"- termine dialettale per indicare una donna di malaffare - di mia moglie?). Demetrio Russo

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Note sull'autore
DEMETRIO RUSSO - Pubblicista, Direttore di Banca in pensione
Tel. 0968.442206 - (rudeme@alice.it)
88046 LAMEZIA TERME
Corrispondente sportivo da Lamezia Terme della “Gazzetta del Sud” di Messina, dal 1958 al 1994. Ha trasmesso servizi a vari quotidiani, in occasione d’importanti manifestazioni ospitate in città e nel circondario, quali: incontri internazionali di pugilato, tornei di basket e di pallavolo, “europei” di biliardo, soste e allenamenti infrasettimanali di squadre di calcio di serie A e B, alla vigilia di rispettivi impegni di campionato. Dal 2005 sul periodico locale “Storicittà” cura una sua rubrica, dal titolo “Personaggi nostrani tra storia e umorismo”, in cui traccia un profilo biografico di quei Lametini del passato, più o meno recente, protagonisti di storielle e aneddoti curiosi. Alcuni anni addietro, su esplicita richiesta dell’imprenditore Domenico Fazzari, ha raccontato in un libro la drammatica prigionia e la tragica fine (21 aprile 1945) del fratello Giuseppe avvenute in Germania, durante la II guerra mondiale. Fatti e circostanze dei drammatici momenti, vissuti dallo sfortunato caporalmaggiore in un campo di prigionia tedesco, sono stati attinti dal diario che lo sfortunato militare ha vergato nei due anni trascorsi in quell’inferno. Altri particolari, come il tragico decesso del giovane, centrato in pieno petto da una granata, sono stati riferiti al pubblicista da un altro suo fratello, il commerciante Vincenzo.
Il drammatico racconto è riproposto nel libro "FIORI MISTI" e, a sinistra, nell'elenco "Storie e Storielle” sotto il titolo: Diario e morte di un prigioniero.
***L’autore, Demetrio Russo, è coniugato con l’ins. Francesca Diaco, dalla quale ha avuto quattro figli e da questi sei nipoti. A loro la dedica dei libri.





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Il Caporalmaggiore Giuseppe Fazzari