03 - ANTONIETTA ARIOSTO, fornaia



A sentirne soltanto il cognome, molti sicuramente diranno: “Ah, se... se... l’haiju canusciùta: era chìlla chi facìa ’u pani supra 'u ponti da Pietà” (Sì...sì, l’ho conosciuta: era quella che aveva il forno nei pressi del ponte vicino alla Chiesa della Pietà). Bassina, grassottella, occhi vivaci, capelli vaporosi e di un color grigio chiaro, l'immancabile infarinatura addosso e sulle mani residui d'impasto. E’ facile richiamarla alla mente e immaginarla dietro il piccolo bancone del forno a dar pane a tutti gli abituali o occasionali clienti, accompagnando la consegna con tante chiacchiere. Il suo forno era sempre aperto. Sfornava pane di ottima qualità tutte le mattine e le persone giungevano da ogni parte della città, anche in orari impensabili, sapendo di trovare quell'alimento o a forma di ciambella oppure di filone. Dal forno raramente te ne uscivi a mani vuote: in alternativa prendevi un “passamano”(filoncino biscottato) o, se buongustaio, una pagnotta fatta con farina di granturco o di castagna.
Brava donna, grande e instancabile lavoratrice. Per anni, fino a quando non ha cresciuto e sistemato i tre figli, ha tirato su da sola la famiglia. Il marito, bisognevole di assidua assistenza, non era in condizione di poterle dare granché d’aiuto. Mai, comunque, che si lamentasse, almeno per quel che mi risulta. Il lavoro di fornaia le piaceva e in certo senso la distraeva. La signora Antonietta - questo il nome di battesimo - era una persona alla mano, scherzosa e talvolta scontrosa. Ogni tanto la trovavi distratta, con la testa immersa in un mondo tutto suo, fatto di pensieri astrusi e di uscite verbali strane. Era estroversa e solitamente di buonumore, nonostante la stanchezza e le preoccupazioni in famiglia.
Sovente accoglieva i clienti ritardatari con la solita frase “pani 'un ci 'ndè, l’haiju furnùtu” (pane non n’è ho, l’ho terminato), quasi a volerli punire per essere giunti oltre il normale orario. E ne scrutava il volto con una sadica ma bonaria curiosità, sperando di cogliervi tracce di delusione e/o di disappunto. Ovviamente scherzava perché dopo un po’ il pane lo recuperava da una cesta posta nella stanzetta retrostante, accompagnando la consegna con un malizioso sorrisetto. Tuttavia ad alcune persone, o perché antipatiche o perché quel giorno lei aveva la classica luna storta, il pane lo negava veramente, pur avendone a disposizione dietro il banco o nel retrobottega. Ne sanno qualcosa alcune sue “vittime”.
La signora Ariosto è ricordata, sì per le indubbie qualità di donna laboriosa, onesta, affettuosa, disponibile e spesso curiosa delle cose altrui, ma soprattutto per il suo caratterino a volte ironico e bonario, altre volte scontroso e lunatico, altre ancora aperto al dialogo al punto di trattenere a lungo davanti al bancone alcuni e spesso ... insofferenti clienti, coinvolgendoli su argomenti di vario genere, anche banalissimi. In certo qual senso la nostra fornaia apparteneva alla schiera di quei personaggi che hanno caratterizzato gli anni e l’intera città di quel periodo. Ad accrescerne la popolarità è stato un equivoco nato in occasione dell’acquisto di una partita di uova. In effetti, l’aspetto umoristico dell’episodio, che ha avuto in passato una certa eco in alcuni rioni cittadini, sta tutto nel piccolo malinteso intercorso tra la fornaia e una contadina.
A dare un tocco di originalità e un motivo di sano umorismo nella trattativa tra le due simpaticissime donne, è stata indubbiamente la battuta finale attribuita alla “pacchiana” (donna in costume nicastrese) con le uova; battuta che probabilmente sarà stata parto della geniale mente di un anonimo buontempone. L’aneddoto, da qualche tempo in circolazione, tornerà certamente gradito alle orecchie di chi ha avuto già occasione di sentirlo, e farà di certo sorridere di gusto quanti lo disconoscono.
Si era a ridosso delle festività pasquali. Il tempo era buono e la signora Ariosto, in uno dei rari momenti di riposo, se ne stava al balcone, su al terzo piano, del fabbricato prospiciente l’imbocco di Via dei Mille. Una contadina nel tradizionale costume locale - oggi lo indossano soltanto belle ragazze di gruppi folkloristici - con una cesta piena di uova sulla testa, scendeva dal rione Bella o, attraversando questo, da una delle frazioni collinari, diretta al mercato. Giunta a una diecina di metri dal forno, la sua attenzione era richiamata dalla signora Ariosto, interessata all’acquisto di un certo quantitativo di uova per i tradizionali “taralli e cuzzùpi” (dolci pasquali) che puntualmente ogni anno, durante quelle festività, sfornava e vendeva.
Il dialogo tra le due donne sarebbe avvenuto in questi termini: la prima a parlare è la signora Ariosto. “O bella quatràra, a cùmu ’i vindi 'st’ova, ch’a mi sèrvinu ’ppì 'sta Pasqua?” (O bella giovane, a quale prezzo vendi queste uova di cui avrei bisogno per Pasqua?), le chiede a voce alta dal balcone. E l’altra, la “pacchiana”, con voce strozzata per il peso sul capo, risponde: “L’òva sunu frischi e vanu a venticinqua liri l’unu” (Le uova sono fresche e costano 25 lire ciascuno). Per colpa dell'udito alquanto difettoso e delle parole poco chiare della contadina espresse da distanza, la signora Antonietta capisce che il costo richiesto per ogni uovo è di lire 35 .
- “Saranno rincarate per la Pasqua”, pensa la simpatica fornaia, lei che i prezzi di mercato conosce perfettamente. Necessitando però di molte uova per i caratteristici dolci di quella festività e volendo cogliere l’occasione presentatasi a portata di... forno, la signora Antonietta confida di chiudere l’affare tentando di aprire una trattativa.
-“Sìanti ’nu pocu: si mi dùni a 30, mi pìgghjiu tutti” (Senti un po’: se me le dai a trenta, le comprerò tutte), le propone dal balcone con voce più sostenuta per essere sicura che le parole, soprattutto la cifra, arrivino chiare all’orecchio della destinataria.
Con ogni probabilità la verità sull’episodio e sulla trattativa, sta tutta qui. Qualcuno ricorda anche che, chiarito l’equivoco, l’acquisto delle uova da parte della fornaia avvenne regolarmente al prezzo indicato dalla contadina e in linea col mercato. Nulla, dunque, di curioso o di particolarmente interessante, se non fosse per quella “aggiunta” finale - ripeto, dalla paternità ignota - che dà sapore e caratterizzazione all’aneddoto. Quale è il succulento finale, frutto della fantasia di un abile tessitore?
La “pacchiana”, ipotizzando che quella vantaggiosa controfferta sia motivata dall’urgenza e dalla difficoltà della signora Ariosto di rifornirsi altrove di quel prodotto, fa dietro-front e si accinge a salire Viale dei Mille per tornare al proprio pollaio. La fornaia, temendo di veder sfumare l’acquisto delle uova necessarie per i dolci da vendere nella settimana di Pasqua, fa di tutto per trattenerla gridandole:
-“Ndùvi sta’ jìandu? Fèrmati ’nu pocu. Aspetta ch'a scìndu sutta, accussì parràmu mìagghiju e 'n accòrdu 'u truvàmu” (Dove vai? Fermati. Dammi il tempo di scendere così possiamo parlare e raggiungere un accordo). A quell’invito-richiamo come reagisce la contadina? Si ferma un attimo, si gira, volge il capo con sopra la cesta in direzione del balcone e con voce rapportata alla distanza, risponde:
-“Oh signò, avìti nu pocu 'i pacìenza. Dàtimi ’u tìampu m’ arrìvu alla casa, ch'a pìgghjiu puru l’ àutri... ” (Signora, abbiate pazienza. Vado a casa a prenderne altre).
E riprende la strada di casa pregustando in cuor suo un ottimo e più consistente affare!

à Demetrio Russo

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Note sull'autore
DEMETRIO RUSSO - Pubblicista, Direttore di Banca in pensione
Tel. 0968.442206 - (rudeme@alice.it)
88046 LAMEZIA TERME
Corrispondente sportivo da Lamezia Terme della “Gazzetta del Sud” di Messina, dal 1958 al 1994. Ha trasmesso servizi a vari quotidiani, in occasione d’importanti manifestazioni ospitate in città e nel circondario, quali: incontri internazionali di pugilato, tornei di basket e di pallavolo, “europei” di biliardo, soste e allenamenti infrasettimanali di squadre di calcio di serie A e B, alla vigilia di rispettivi impegni di campionato. Dal 2005 sul periodico locale “Storicittà” cura una sua rubrica, dal titolo “Personaggi nostrani tra storia e umorismo”, in cui traccia un profilo biografico di quei Lametini del passato, più o meno recente, protagonisti di storielle e aneddoti curiosi. Alcuni anni addietro, su esplicita richiesta dell’imprenditore Domenico Fazzari, ha raccontato in un libro la drammatica prigionia e la tragica fine (21 aprile 1945) del fratello Giuseppe avvenute in Germania, durante la II guerra mondiale. Fatti e circostanze dei drammatici momenti, vissuti dallo sfortunato caporalmaggiore in un campo di prigionia tedesco, sono stati attinti dal diario che lo sfortunato militare ha vergato nei due anni trascorsi in quell’inferno. Altri particolari, come il tragico decesso del giovane, centrato in pieno petto da una granata, sono stati riferiti al pubblicista da un altro suo fratello, il commerciante Vincenzo.
Il drammatico racconto è riproposto nel libro "FIORI MISTI" e, a sinistra, nell'elenco "Storie e Storielle” sotto il titolo: Diario e morte di un prigioniero.
***L’autore, Demetrio Russo, è coniugato con l’ins. Francesca Diaco, dalla quale ha avuto quattro figli e da questi sei nipoti. A loro la dedica dei libri.





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Il Caporalmaggiore Giuseppe Fazzari