
A sentirne soltanto il cognome, molti
sicuramente diranno: “Ah,
se... se... l’haiju canusciùta: era chìlla chi facìa ’u pani supra 'u ponti da
Pietà” (Sì...sì, l’ho
conosciuta: era quella che aveva il forno nei pressi del ponte vicino alla
Chiesa della Pietà). Bassina,
grassottella, occhi vivaci, capelli vaporosi e di un color grigio chiaro,
l'immancabile infarinatura addosso e sulle mani residui d'impasto. E’ facile
richiamarla alla mente e immaginarla dietro il piccolo bancone del forno a dar
pane a tutti gli abituali o occasionali clienti, accompagnando la consegna con
tante chiacchiere. Il suo forno era sempre aperto. Sfornava pane di ottima
qualità tutte le mattine e le persone giungevano da ogni parte della città,
anche in orari impensabili, sapendo di trovare quell'alimento o a forma di
ciambella oppure di filone. Dal forno raramente te ne uscivi a mani vuote: in
alternativa prendevi un “passamano”(filoncino biscottato) o, se buongustaio, una pagnotta fatta
con farina di granturco o di castagna.
Brava donna, grande e instancabile
lavoratrice. Per anni, fino a quando non ha cresciuto e sistemato i tre figli,
ha tirato su da sola la famiglia. Il marito, bisognevole di assidua assistenza,
non era in condizione di poterle dare granché d’aiuto. Mai, comunque, che si
lamentasse, almeno per quel che mi risulta. Il lavoro di fornaia le piaceva e
in certo senso la distraeva. La signora Antonietta - questo il nome di
battesimo - era una persona alla mano, scherzosa e talvolta scontrosa. Ogni
tanto la trovavi distratta, con la testa immersa in un mondo tutto suo, fatto
di pensieri astrusi e di uscite verbali strane. Era estroversa e solitamente di
buonumore, nonostante la stanchezza e le preoccupazioni in famiglia.
Sovente accoglieva i clienti ritardatari
con la solita frase “pani 'un
ci 'ndè, l’haiju furnùtu” (pane
non n’è ho, l’ho terminato), quasi
a volerli punire per essere giunti oltre il normale orario. E ne scrutava il
volto con una sadica ma bonaria curiosità, sperando di cogliervi tracce di
delusione e/o di disappunto. Ovviamente scherzava perché dopo un po’ il pane lo
recuperava da una cesta posta nella stanzetta retrostante, accompagnando la
consegna con un malizioso sorrisetto. Tuttavia ad alcune persone, o perché
antipatiche o perché quel giorno lei aveva la classica luna storta, il pane lo
negava veramente, pur avendone a disposizione dietro il banco o nel
retrobottega. Ne sanno qualcosa alcune sue “vittime”.
La signora Ariosto è ricordata, sì per le
indubbie qualità di donna laboriosa, onesta, affettuosa, disponibile e spesso
curiosa delle cose altrui, ma soprattutto per il suo caratterino a volte ironico
e bonario, altre volte scontroso e lunatico, altre ancora aperto al dialogo al
punto di trattenere a lungo davanti al bancone alcuni e spesso ... insofferenti
clienti, coinvolgendoli su argomenti di vario genere, anche banalissimi. In
certo qual senso la nostra fornaia apparteneva alla schiera di quei personaggi
che hanno caratterizzato gli anni e l’intera città di quel periodo. Ad
accrescerne la popolarità è stato un equivoco nato in occasione dell’acquisto
di una partita di uova. In effetti, l’aspetto umoristico dell’episodio, che ha
avuto in passato una certa eco in alcuni rioni cittadini, sta tutto nel piccolo
malinteso intercorso tra la fornaia e una contadina.
A dare un tocco di originalità e un motivo
di sano umorismo nella trattativa tra le due simpaticissime donne, è stata
indubbiamente la battuta finale attribuita alla “pacchiana” (donna in costume nicastrese) con le uova; battuta che probabilmente
sarà stata parto della geniale mente di un anonimo buontempone. L’aneddoto, da
qualche tempo in circolazione, tornerà certamente gradito alle orecchie di chi
ha avuto già occasione di sentirlo, e farà di certo sorridere di gusto quanti
lo disconoscono.
Si era a ridosso delle festività pasquali.
Il tempo era buono e la signora Ariosto, in uno dei rari momenti di riposo, se
ne stava al balcone, su al terzo piano, del fabbricato prospiciente l’imbocco
di Via dei Mille. Una contadina nel tradizionale costume locale - oggi lo
indossano soltanto belle ragazze di gruppi folkloristici - con una cesta piena
di uova sulla testa, scendeva dal rione Bella o, attraversando questo, da una
delle frazioni collinari, diretta al mercato. Giunta a una diecina di metri dal
forno, la sua attenzione era richiamata dalla signora Ariosto, interessata
all’acquisto di un certo quantitativo di uova per i tradizionali “taralli e
cuzzùpi” (dolci pasquali) che puntualmente ogni anno, durante quelle
festività, sfornava e vendeva.
Il dialogo tra le due donne sarebbe
avvenuto in questi termini: la prima a parlare è la signora Ariosto. “O bella quatràra, a cùmu ’i vindi
'st’ova, ch’a mi sèrvinu ’ppì 'sta Pasqua?” (O bella giovane, a quale prezzo
vendi queste uova di cui avrei bisogno per Pasqua?), le chiede a voce alta dal balcone. E
l’altra, la “pacchiana”, con voce strozzata per il peso sul capo, risponde: “L’òva sunu frischi e vanu a
venticinqua liri l’unu” (Le
uova sono fresche e costano 25 lire ciascuno). Per colpa dell'udito
alquanto difettoso e delle parole poco chiare della contadina espresse da
distanza, la signora Antonietta capisce che il costo richiesto per ogni uovo è
di lire 35 .
- “Saranno
rincarate per la Pasqua”, pensa la simpatica fornaia, lei che i prezzi di
mercato conosce perfettamente. Necessitando però di molte uova per i
caratteristici dolci di quella festività e volendo cogliere l’occasione
presentatasi a portata di... forno, la signora Antonietta confida di chiudere
l’affare tentando di aprire una trattativa.
-“Sìanti ’nu pocu: si mi dùni a 30, mi
pìgghjiu tutti” (Senti un po’: se me le dai a trenta, le
comprerò tutte), le propone dal balcone con voce più
sostenuta per essere sicura che le parole, soprattutto la cifra, arrivino
chiare all’orecchio della destinataria.
Con ogni probabilità la verità
sull’episodio e sulla trattativa, sta tutta qui. Qualcuno ricorda anche che,
chiarito l’equivoco, l’acquisto delle uova da parte della fornaia avvenne
regolarmente al prezzo indicato dalla contadina e in linea col mercato. Nulla,
dunque, di curioso o di particolarmente interessante, se non fosse per quella
“aggiunta” finale - ripeto, dalla paternità ignota - che dà sapore e
caratterizzazione all’aneddoto. Quale è il succulento finale, frutto della
fantasia di un abile tessitore?
La “pacchiana”, ipotizzando che quella
vantaggiosa controfferta sia motivata dall’urgenza e dalla difficoltà della
signora Ariosto di rifornirsi altrove di quel prodotto, fa dietro-front e si
accinge a salire Viale dei Mille per tornare al proprio pollaio. La fornaia,
temendo di veder sfumare l’acquisto delle uova necessarie per i dolci da
vendere nella settimana di Pasqua, fa di tutto per trattenerla gridandole:
-“Ndùvi sta’ jìandu? Fèrmati ’nu pocu.
Aspetta ch'a scìndu sutta, accussì parràmu mìagghiju e 'n accòrdu 'u truvàmu” (Dove vai? Fermati. Dammi il tempo di
scendere così possiamo parlare e raggiungere un accordo). A quell’invito-richiamo come reagisce la
contadina? Si ferma un attimo, si gira, volge il capo con sopra la cesta in
direzione del balcone e con voce rapportata alla distanza, risponde:
-“Oh signò, avìti nu pocu 'i pacìenza.
Dàtimi ’u tìampu m’ arrìvu alla casa, ch'a pìgghjiu puru l’ àutri... ” (Signora, abbiate pazienza. Vado a casa a
prenderne altre).
E riprende la strada di casa pregustando
in cuor suo un ottimo e più consistente affare!
à Demetrio Russo
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