
Negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale, l’amore
per la patria coinvolse tantissimi italiani, anche padri di famiglia, mandati
in Africa da chi, per ambizione e spirito di emulazione, pensava di far
“grande” l’Italia mediante conquiste coloniali, sulla scia di altre nazioni. Un generalizzato entusiasmo correva tra i più giovani, specialmente al Sud, coinvolgendoli in una spirale d’illusioni e di
drammatici eventi. Per essi indossare la divisa e partire alla conquista di
terre da annettere al Paese era un evento da cogliere senza pensarci su un
istante. C’era in quei giovani anche tanta voglia di emanciparsi, di uscire da
una situazione d’incertezza economica e di difficoltà quotidiane per niente trascurabili.
In effetti, a quei tempi la vita era dura, specialmente nei piccoli centri. Nelle famiglie
meno abbienti si compivano i classici salti mortali per mandare avanti la
baracca. I contadini lavoravano piccoli appezzamenti di terra, riuscendo, a stento e dopo
tanta fatica, a produrre ortaggi e cereali per il proprio nucleo familiare, in
molti casi comprendente numerosa prole. Gli artigiani dovevano sgobbare sodo
per soddisfare le richieste dei loro clienti e rimediare il denaro appena
sufficiente per far fronte alle più impellenti necessità in famiglia. Molti certamente ricorderanno che soltanto poche persone potevano
permettersi, per esempio, più abiti e più paia di scarpe durante l’anno, quando
gli altri invece dovevano attendere il mese di giugno, in occasione delle
festività di Sant’Antonio e dei Santi Pietro e Paolo, per farsi cucire l’abito
nuovo, che era trasferito da padre in figlio e da questi al fratello più
piccolo. I ragazzi andavano a garzone presso botteghe di artigiani per
apprendere mestiere o per togliersi dai piedi dei grandi. Per compenso ricevevano
poco e niente. Soltanto in occasione di feste importanti rimediavano piccole
regalie di denaro con cui togliersi qualche sfizio. Molti di essi attendevano
con impazienza il passaggio, davanti casa, del gelataio con quel caratteristico carrozzino a tre ruote per metà
bicicletta (la parte posteriore) e per l'altra metà cassonetto simile alla prua
di una barca con coperchio superiore. All’interno del cassonetto trovavano
posto due pozzetti metallici con coperchio sagomato, a forma di cono, con
dentro il gustoso gelato al limone; entrambi i contenitori erano mantenuti a
bassa temperatura da blocchi di ghiaccio acquistati presso la ditta Benincasa, in piazza Sacchi. Pochi
ragazzi, avendo in tasca le monete necessarie per l’acquisto, gustavano quei
coni con gli occhi e con la bocca. Tutti gli altri potevano concedersi solo
occhiate di comprensibile invidia. Per qualcuno, meno
sfortunato, talvolta otteneva una rapida leccatina dal generoso e … ricco
amichetto. Non soltanto il gelato, pure il succoso loto e le more rosse erano
nei sogni di quei ragazzini. Al tempo delle more, prodotte prevalentemente in collina, il contadino scendeva in
città reggendo sulla testa un contenitore d’argilla, noto come “a limba”, con dentro gli squisiti
frutti, “a mura nìgura” (le more sanguigne),
immersi nel loro liquido di color porpora e venduti nelle quantità dosate con
un piattino da tazzina da caffè. E tutti lì ad attenderlo.
A parte qualche momento di relativa spensieratezza, soprattutto in ambito
giovanile, quei tempi erano davvero duri e difficili. La decisione, presa
dall’alto, di allestire un esercito da inviare in Africa a conquistare
territori, fu vista di buon occhio da tanti giovani attratti da un pasto sicuro
e forse anche da qualche soldo per le sigarette. Non mancarono, in tantissimi
giovani, stimoli diversi come, ad esempio, quello di andare fuori dalla propria
città o compagna e conoscere gente e luoghi nuovi. E c’era pure chi aveva
voglia di indossare una divisa con nastrini e stellette, magari per fare colpo
sulle ragazze. Alla base di tutto in quei giovani vi era la volontà di rendersi
utili alla Patria, prendendo ad esempio quei tanti italiani, uomini e donne,
che avevano offerto per le sue necessità belliche persino le fedi d’oro e i
propri gioielli.
La spensieratezza che si riscontra dalle loro foto,
conferma lo stato d’animo e l’entusiasmo con cui quei “soldatini” rispondevano o si offrivano all’invito di prendere
armi e bagagli e partire verso lidi sconosciuti. Conoscevano poco o nulla dei
programmi del regime e di quel che li attendeva in guerra. Nel deserto africano,
in un ambiente difficile e poco ospitale, sono stati chiamati a combattere
contro avversari con ben altro equipaggiamento e con ben altri mezzi bellici, e tanti
di loro hanno lasciato sulla rovente sabbia la propria vita. In pochi sono
riusciti a salvare la pelle e a far ritorno a casa, felici ma delusi della loro
esperienza sul fronte e, in alcuni casi, segnati irrimediabilmente nel corpo e nello spirito. L’umanità e
la generosità di quelle “matricole” dell’esercito, scaricate da navi e da aerei
sul continente nero, sono però emerse in tutta la loro forza e brillantezza nei rapporti con le popolazioni
conquistate. E’ stato questo uno dei pochi aspetti positivi dell’occupazione
italiana in Africa. L’atteggiamento verso
gli indigeni, già abbastanza provati da povertà, fame, malattie e quant’altro,
è stato improntato sempre a sentimenti cristiani e umanitari. Quei militari
hanno offerto viveri e risolto piccoli problemi, assicurando alla gente del
posto un po’ di sollievo e di relativa serenità.
Tra quei militari, col grado di maresciallo, vi era mio
padre Agostino, un uomo la cui vita è stata costantemente ispirata da sentimenti di umanità, di
rispetto verso gli altri e di generosità verso i bisognosi. L’esperienza
vissuta in Africa tra quella gente disperata, segnata dalla fame e dalle
malattie, ne è una valida testimonianza.
Al suo rientro a casa, avvenuto a guerra finita e dopo tante peripezie, il sottufficiale aveva con sé delle foto, una delle
quali, custodita gelosamente, lo ritrae con alcuni ragazzini di colore, felici
di ricevere da quel militare le famose “gallette”, un gustoso biscotto a forma
di mattonella in dotazione ai militari italiani. Per il resto il maresciallo
avrebbe voluto dimenticare tutto: le battaglie, le detonazioni, i morti, i feriti,
le sofferenze, la lontananza dai propri affetti, spesso anche la nostalgia e la
solitudine. E per tale ragione che raramente negli anni post-bellici ha aperto
con altri, compresi i propri cari, il discorso sul periodo trascorso sotto le
armi. Ha preferito mettere una pietra sul passato e su una guerra che, per il
suo evolversi e per le sue tragiche conseguenze, non ha in seguito del tutto
condiviso. Lui e i tanti giovani partiti con grande entusiasmo dai rispettivi
paesi, alla fine si sono ritrovati coinvolti in una vicenda, di cui sono stati testimoni
e vittime, non protagonisti.
Sulle loro spalle, alla fine, è rimasto il peso di una
negativa esperienza e di una cocente delusione. Finito l’incubo, tornata la
pace, i pochi giovani assistiti dalla Provvidenza e dalla buona sorte hanno
fatto ritorno a casa e alla vita. Nel riabbracciare la moglie Santina e i cinque figli,
Agostino Russo ha colto nei loro occhi la gioia per il suo atteso ritorno e con
loro ha ripreso il cammino della vita, bruscamente interrotto - per fortuna per
un periodo relativamente breve - dai tragici eventi, sforzandosi di dimenticare
il passato e di volgere lo sguardo al futuro con ritrovata serenità e tanta
fiducia nella Divina Provvidenza. Demetrio Russo
Chao zio sono yo Carmen, o cominchato a legere un po sul nono... erano tuti molto coragosi.
RispondiEliminaCarissima Carmen,
RispondiEliminasono davvero compiaciuto di sapere che stai leggendo l'articolo sul tuo bisnonno, una persona per bene e generosa, di cui noi anziani abbiamo un bellissimo ricordo. A te e ai tuoi un caldo abbraccio e l'augurio di un radioso avvenire. Ciao cara, zio Demetrio