1 - DIARIO E MORTE DI UN PRIGIONIERO DI GUERRA


" QUEL MALEDETTO APPUNTAMENTO CON IL DESTINO "


RECENSIONE a cura del Prof. Francesco Sisca

Quel maledetto appuntamento con il destino” è un lavoro letterario del giornalista Demetrio Russo che si propone di portare alla luce episodi sconcertanti dell’ultima guerra mondiale. Una lezione che fa meditare qualsiasi lettore, anche il più distratto.
Protagonista è un giovane lametino, Giuseppe Fazzari, che il 21 aprile 1945 perse la vita in Germania, dove era prigioniero di guerra, dopo aver combattuto in Grecia per la Patria, che amava teneramente e profondamente. Morì quando sentiva istintiva la gioia di vivere!
Una storia commovente, espressa con un linguaggio semplice e con tocchi di elevata umanità. Ed io l’ho letta con l’animo angosciato giacché mi ha fatto ricordare la mia “Via Crucis” di quel tempo. Ero militare, abbandonato, dopo l’otto settembre 1943, alla “caccia” dei nazisti, che mi cercavano per mandarmi nei campi di concentramento in Germania.
Fortunatamente io riuscii a evitarli con l’aiuto di Dio, cui mi rivolgevo continuamente. Però arrivai a casa dopo vari mesi di cammino, di sofferenze indescrivibili e di pericoli mortali.
Russo, cogliendo con acuta sensibilità umana immagini di quei tempi, ha continuato con uno scenario vario di personaggi lametini come “Donna Rosina”, (
alias Cirrilla), una signora modesta e umile che si dedicava, come una mamma, ai bambini del suo rione che di giorno rimanevano soli, perché i genitori andavano a lavorare nei campi; Anselmo Cosentino, una figura “paesana” che sapeva servire e amare la famiglia Statti, di cui era “maggiordomo”; Antonietta Ariosto, popolare per il buon sapore che sapeva dare al pane che panificava nel suo forno a legna; Nicola Rocca, memorabile per i suoi sorrisi aperti e generosi, per il suo contatto cordiale con la gente e per la sua arte artigianale: e tanti altri che Demetrio Russo ha evocato per renderli indimenticabili, perché hanno lasciato testimonianze di vita genuina, di buone regole tradizionali.
FRANCESCO SISCA


 PREMESSA dell'autore

Giuseppe Fazzari, primo di sette figli dei coniugi Giorgio e Annunziata Mammoliti, caporalmaggiore del 48° Reggimento Artiglieria dislocato sul fronte greco nella seconda guerra mondiale, durante la prigionia nei campi di concentramento tedeschi ha vergato di proprio pugno - per come poteva e sapeva, avendo frequentato soltanto le prime classi elementari - un interessantissimo resoconto dei drammatici avvenimenti nei quali si è trovato coinvolto.Il resoconto, in cui il militare da Bella di Nicastro ha descritto, con semplicità e coinvolgente stato d’animo, la dura prigionia e i patimenti vissuti in quel negativo periodo di storia italiana e mondiale, ha inizio dall’otto settembre 1943. E' la data dello storico armistizio tra l’Italia e le Forze di liberazione; accordo in realtà firmato giorni prima a Cassibile (Siracusa) dal gen. Castellano, su incarico del Maresciallo Badoglio, per l’Italia e dal gen. Bedell Smith, delegato all'uopo dal gen. Eisenhower, per gli Alleati. L’ultima pagina del resoconto porta la data del 19 aprile 1945. Due giorni più tardi, in occasione del tragico evento, il manoscritto è stato raccolto e custodito con amorevole cura da alcuni suoi commilitoni i quali, appena tornati a casa, l’hanno consegnato ai coniugi Fazzari, gli amatissimi genitori dello sfortunato caporalmaggiore. Giuseppe avrebbe voluto chiudere questo suo diario con annotazioni di gioia per il ritorno tra i propri cari e offrirlo con le proprie mani a papà e mamma, ma un’ingrata sorte aveva deciso in maniera diversa, spezzandone prematuramente la vita. Tutto, assai verosimilmente, era già scritto nel destino del giovane. Non si spiegano altrimenti fatti e circostanze a dir poco strani. A una prima chiamata alle armi egli l’aveva fatta franca: dalla Commissione medico-militare era stato giudicato “rivedibile” e rispedito a casa, evitando il servizio di leva. Riprese, quindi, i lavori nel piccolo podere di sua proprietà alla periferia della città e diede, di tanto in tanto, una mano al padre artigiano-cestaio. Riconvocato presso il Distretto militare, il 4 febbraio del ’43 fu riconosciuto “abile” e dovette, suo malgrado, indossare divisa e moschetto e andare in guerra. Lasciò a casa il papà Giorgio, la mamma Annunziata e i sei fratelli più piccoli: Vincenzo e Domenico commercianti in Lamezia Terme, Antonio e Francesca emigrati in Australia, Maria e Maria Annunziata da qualche tempo decedute. Il giovane Giuseppe partì, dunque, per il servizio di leva con destinazione Nola, in Campania, e fu assegnato al 48° Reggimento Artiglieria. Da lì, dopo qualche settimana, finì in Grecia, a Ghittion sulla costa ionica, dove il suo reggimento aveva il compito di presidiare assieme ai Tedeschi il tratto di mare antistante e segnalare alla propria aviazione eventuali presenze di navi inglesi. Con il Fazzari partirono altri cinque - sei compaesani, anche loro sradicati, nel fiore degli anni, dall’operoso territorio retrostante il golfo di S. Eufemia e mandati al fronte. Nei giorni successivi all’armistizio, gli artiglieri furono trasferiti ad Atene, dove i militari italiani speravano di trovare il mezzo e l’occasione per chiudere con la guerra e tornare finalmente a casa. Purtroppo, durante il tragitto essi dovettero ricredersi. Erano prigionieri dei Tedeschi, da quel momento disposti a tutto pur di vendicare il “tradimento” commesso dagli ex alleati italiani con quel trattato dell’otto settembre. I soldati della Wehrmatch, che in precedenza avevano controllato al fianco degli Italiani il tratto di mare antistante al litorale ionico, disarmarono gli artiglieri e li fecero salire su un convoglio diretto in Germania. Il caporalmaggiore e altri commilitoni si ritrovarono in sessantacinque all’interno di uno dei carri-bestiame. Avevano poco spazio per muoversi; stavano accovacciati uno accanto all’altro sul ruvido pianale; sembravano tante pecore rinchiuse in un piccolo ovile. Il treno eseguiva molte fermate, anche in piena campagna, per consentire ai trasportati sia di allontanarsi in fretta dai binari e cercare riparo alle frequenti incursioni aeree anglo-americane, sia per consumare il rancio nei limiti di tempo consentiti dalla tabella di marcia; vitto costituito – almeno quello destinato ai prigionieri – da una brodaglia priva di sostanze nutritive e, tra l’altro versata nelle singole “gavette” in quantità tale da coprirne appena il fondo. Su quel treno, senza una pur pallida idea sulla destinazione, legittimi timori affioravano nella mente e sulle labbra di quei malcapitati circa la sorte che li attendeva. Giuseppe Fazzari e compagni finirono in due campi di prigionia. Prima a Luckenwalde e poi a Berlino, dove trascorsero mesi di sofferenze e di stenti. La caduta del III Reich era ormai nell’aria: le “fortezze volanti” anglo-americane avevano già scaricato tonnellate di bombe sulla Germania disintegrandone case, strade e linee ferrate; l’esercito russo, dopo aver spento i residui periferici focolai di resistenza delle truppe fedeli al Fuhrer, stava entrando in Berlino; il conflitto, che tante vittime aveva lasciato sui campi di battaglia, era ormai sul punto di estinguersi. Per migliaia di prigionieri stavano per schiudersi i cancelli dei campi di concentramento e il loro atteso ritorno a casa si profilava ormai all’orizzonte. Proprio in quei momenti di speranza e di buone prospettive per chi aveva tanto sofferto e rischiato più volte la vita, una sorte beffarda e impietosa negava al giovane caporalmaggiore nicastrese la gioia di assaporare la ventata di libertà che spirava già sulla capitale germanica. Dietro l’angolo, purtroppo, era ad attenderlo un amaro, crudele destino.
 DEMETRIO RUSSO

Il racconto delle vicende belliche e della prigionia in un manoscritto inedito: resoconti e ricordi di guerra, prigionia, maltrattamenti, patimenti, illusioni. Poi le drammatiche circostanze della morte.

1 – Da alleato a prigioniero dei Tedeschi

Dopo la capitolazione dell’Italia io mi trovavo in Grecia - inizia così, in un italiano commisurato alla limitata frequenza scolastica del militare e opportunamente rielaborato, il manoscritto Racconto della mia vita da prigioniero” - e la sera dell’8 settembre noi italiani eravamo assieme ai signori Tedeschi, nostri alleati, con i quali stavamo trascorrendo una serata piacevole tra balli e musica. Ci trovavamo a Ghittion, piccolo agglomerato urbano sulla costa ionica, a pochi chilometri da Calamata, nel Peloponneso. A un certo punto squillò il telefono da campo, sistemato all’interno di un caposaldo presidiato dalla nostra fanteria, e qualcuno gridò: Batteria, batteria!”, richiamando l’attenzione dell’intero contingente italiano. Che cosa era successo? Era pervenuta una chiamata dal Comando. Io e il collega Di Branco rintracciammo subito il tenente Bassano, un ufficiale da poco aggregato al nostro distaccamento, e con lui ci siamo portati sul posto per conoscere il contenuto di quella comunicazione. L’ufficiale avvicinò un collega del Genio e i due parlarono tra loro sottovoce. Di quel colloquio afferrai ben poco: mi giunse, comunque, chiara all’orecchio la parola “armistizio”, ma ne disconoscevo dettagli e termini. Confidai a Di Branco, rimasto più indietro, quelle frammentarie notizie rendendolo partecipe delle mie speranze, ma anche degli interrogativi che mi stavo ponendo sulla reale portata di quelle informazioni. Al ritorno ho riferito le medesime cose ai commilitoni Santo Rocca, Domenico Tedesco, Antonio Marino e Giovanni Arrigo, compagni di tenda. Raccomandai loro di non farne parola con altri, trattandosi di notizie carpite senza volerlo e, per di più, incomplete. Poco dopo, nel nostro alloggio entrò il tenente e ordinò a me e a Di Branco di tornare alla postazione del telefono per raccogliere eventuali altre comunicazioni e riferirgliele senza perdere tempo. Di quanto stava accadendo il comandante non fece alcun cenno ai colleghi tedeschi che quella sera, finita la festa, andarono tutti a dormire. Anche io avevo sonno e sarei andato volentieri a letto. Tuttavia mi era stato dato quell'ordine e, quasi contro voglia, mi recai subito con Di Branco sul posto indicatomi. Alle quattro del mattino il telefono da campo squillò. L’addetto alzò la cornetta e dall’altra parte del filo chiesero di voler parlare con l’ufficiale di turno. Corsi a chiamare il tenente, che uscì dal suo alloggio in un batter d’occhio. Quella notte si era sdraiato sulla brandina così come era vestito perché si aspettava ulteriori comunicazioni dal Comando centrale e, in tal caso, non avrebbe perso del tempo prezioso. L’ufficiale afferrò la cornetta e scambiò con l'interlocutore, un suo pari grado, poche parole dalle quali compresi che gli si ordinava di far saltare, alle ore sette in punto, tutti i pezzi della nostra artiglieria. Al termine della telefonata, mi avvicinai e gli chiesi cosa stesse succedendo. Egli accennò qualcosa sull’argomento, che a noi tutti stava particolarmente a cuore, dicendomi di tenere la bocca chiusa perché nulla si sapeva ancora sulle condizioni e sulle disposizioni previste dall’armistizio, "quasi certamente – disse - firmato in discordia della Germania”. Subito dopo mi chiese di rintracciare il sergente di turno e trasmettergli l’ordine di dare la sveglia ai militari prima del solito, con la raccomandazione di agire con la massima prudenza. Per me la cosa era troppo bella e troppo importante per non parteciparla ai compaesani che stavano riposando. Per primo svegliai Santo Rocca, poi gli altri e riferii loro quel che avevo sentito. Essi, in preda a curiosità e grande euforia, si alzarono in un batter d’occhio chiedendo di conoscere altri dettagli. Non ne avevo. Uscii quasi subito per recarmi dal sergente, un mio amico, e riferirgli le decisioni del comandante. Me ne chiese la ragione. Io, sapendo che potevo fidarmi, gli confidai quanto era di mia conoscenza. Ne fu particolarmente contento e, rivolto ai soldati che dormivano, urlò di gioia: Sveglia, sveglia!”. Tutti si alzarono e si vestirono in fretta. Poco dopo venne il tenente che ordinò l’adunata e dispose che ci armassimo di moschetto e di bombe a mano. Ci informò brevemente sul contenuto della telefonata e diede le disposizioni che da quel momento avremmo dovuto osservare. Eravamo felici, eccitatissimi. Prospettive importanti sembravano sul punto di materializzarsi: la fine di una guerra dura e difficile, il tanto sospirato ritorno a casa e la gioia di poter riabbracciare presto i nostri familiari. Dopo un po’ tornammo con i piedi per terra, prendendo coscienza dell’incerta situazione in cui ci trovavamo. Nessuno sapeva cosa fare e dove andare. Il tenente Bassano disse soltanto che l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati era stato firmato all’insaputa dei Tedeschi e che, pertanto, bisognava agire con la massima prudenza. Ammutoliti, ci muovemmo per eseguire il suo ultimo ordine: Andate e tenetevi pronti”.

2 - Il rifiuto del tenente di consegnare le armi ai Tedeschi

Verso le ore 9 arrivarono dei militari tedeschi armati di tutto punto. Il loro comandante chiese con tono minaccioso che gli si fossero indicati i punti dove erano sistemati i nostri pezzi d’artiglieria. Bassano indicò con la mano diversi posti, facendo credere agli ex alleati che disponevamo di diverse batterie (in realtà era una sola) e tutte con le armi pronte all’uso. L’ufficiale della "Wehrmatch", trovatosi di fronte a una situazione imprevista e non facile da gestire, si limitò, con toni meno perentori, a chiedere che gli fossero consegnate le armi. Il tenente Bassano, un ex poliziotto con sangue vero nelle vene, rifiutò di farlo motivando di non aver avuto ordini in tal senso. La richiesta da parte tedesca fu ripetuta, ma non fu accolta. Il nostro comandante fu irremovibile. Addirittura, minacciò quei Tedeschi di usare le armi contro di loro in caso di comportamenti minacciosi o anche semplicemente sospetti. Poi, per non irretirli più di tanto, aggiunse che il rifiuto di consegnare le armi era motivato altresì dall’eventualità di doverle usare contro gli Inglesi, da considerare ancora nemici, in assenza di comunicazioni da parte del Comando centrale. La cosa finì lì. Mentre gli ex alleati tedeschi se ne tornavano a mani vuote, Bassano si volse verso di noi e dispose che due mitragliatrici fossero subito prelevate dalla postazione antiaerea e tenute ben nascoste, per tirarle poi fuori in caso di necessità. A un certo punto i nostri militari, in servizio alla batteria, diedero l’allarme mediante alcuni spari in aria. Avevano notato, a circa un chilometro di distanza, una banda di ribelli (Fazzari li definisce così, ma si trattava probabilmente di partigiani greci) avvicinarsi al nostro campo con fare circospetto. Puntavano verosimilmente a impadronirsi delle nostre armi. Alcuni di essi, alzando una bandiera bianca improvvisata e fingendo di voler trattare, venivano avanti con circospezione, seguiti a distanza dagli altri con le armi in pugno. Il capitano Villo Pompeo e il tenente colonnello Pucci, avvertiti dagli spari, si portarono subito nella postazione antiaerea munita di alcune mitragliatrici e di un cannone di fabbricazione olandese. Gli ufficiali, avendo notato che gli addetti a quelle armi erano incerti sul da farsi e pure preoccupati, ordinarono loro di mettersi al riparo e ne occuparono il posto dietro il cannone: il primo come tiratore e l’altro come puntatore, pronti a far fuoco contro quella masnada. Quando quei malintenzionati furono a distanza di tiro, il capitano sparò un primo colpo in aria per metterli in fuga. L'avvertimento non sortì l'effetto voluto. I ribelli continuavano ad avanzare. Seguì una seconda cannonata esplosa ai piedi di una quercia, a poca distanza dai destinatari, i quali, capita l’antifona, si allontanarono precipitosamente, abbandonando sul posto quella bandiera di fortuna. Più tardi, cessato l’allarme, al nostro contingente giunse l’ordine di consegnare tutte le armi in dotazione tranne il moschetto. Il dieci di settembre eravamo in attesa degli automezzi che - per come era stato assicurato - avrebbero dovuto prelevarci e portarci in Italia. Passavano le ore e di camion in arrivo neppure l’ombra. Quell’attesa prolungata ci rendeva particolarmente tristi e nervosi. Tra le altre cose, notizie contrastanti si rincorrevano: chi suggeriva di raggiungere l’Albania e lasciare le armi pesanti ai Tedeschi, chi invece di andare a Patrasso e prendere la nave diretta in Italia. In parole povere: nulla di preciso. Non sapevamo quali pesci prendere. I giorni trascorrevano nella più assoluta incertezza. Una sera vidi rientrare dalla postazione antiaerea Falvo e Curcio stanchi e sudati; avevano appena terminato il turno di guardia. Si sedettero ai piedi di un albero d’ulivo per riposare. Il mattino seguente, zaino in spalla, con dentro quanto ciascuno di noi ritenne strettamente necessario, finalmente ci avviammo verso casa. Almeno questa era la destinazione da qualcuno indicata. Marciava al mio fianco l’amico Falvo. Assieme a lui ho mangiato della pasta asciutta durante una piccola sosta alle porte di un paesino, di cui non ricordo il nome. Nel pomeriggio salimmo su un automezzo con destinazione Tripoli, nel Peloponneso, per poi raggiungere Atene, dove si sperava di conoscere tempi e mezzi di trasporto per il rientro in Italia. Camminammo fino alle sette di sera. C’era tanto buio attorno, non si vedeva un bel niente. Il comandante dispose un’altra sosta. Montate le tende e raggruppati i moschetti a terra, ci mettemmo a dormire. All’alba del mattino seguente qualcuno ci svegliò. Ci ritrovammo circondati da soldati (secondo Santo Rocca si trattava di reparti fedeli a Mussolini) con le mitragliatrici puntate contro. Sistemato lo zaino, riprendemmo il cammino. Tripoli era ancora distante. Ci attendevano ben otto chilometri di marcia forzata. Quanta stanchezza e quanta fatica avendo sulle spalle quel carico di una settantina di chili! A Tripoli ci radunarono in uno spiazzo antistante alla caserma del “59° Reggimento Cagliari”, sempre circondati da guardie armate. Accovacciati e ammucchiati, sembravamo un gregge di pecore.Qualche giorno dopo giunse una macchina fornita di altoparlante. Uno degli occupanti chiese se volevamo stare dalla parte del Duce e combattere ancora a fianco dei Tedeschi. Nessuno di noi profferì parola e rientrammo tutti nella tenda assegnata. Rimanemmo in quel campo fino a giorno diciotto, in condizioni di particolari difficoltà. Tanto per citarne una: avevamo un’unica lametta da barba, adoperata già da qualche tempo e dal filo consumato. A turno ce ne siamo serviti in cinque nei pressi di un albero di mandorle. Santo Rocca, che aveva un pelo ispido e fastidioso in viso, non riuscì a radersi; ne fu assai rammaricato, e per poco non pianse.Il giorno dopo si presentò un Generale di Divisione del nostro esercito e ci fece la morale. Disse: Coraggio ragazzi, io cercherò di farvi rientrare in Italia, però non sparate ai Tedeschi, con i quali siamo stati due anni alleati, e neppure agli Inglesi. Sparate invece contro i Greci che hanno spogliato i cadaveri dei nostri caduti”. Sera del diciotto ci fecero salire su un treno. Si viaggiò tutta la notte tra alte montagne che, immerse nel buio, incutevano paura.

3 - L'incontro con Pietro Costantino

Arrivammo ad Atene il mattino seguente. Nella capitale ellenica c’era un via vai di gente, soprattutto di militari. In quella città notai una caserma di granatieri. Sperai di incontrare dei paesani ai quali chiedere notizie di mio cugino Vincenzo Mammoliti. Seppi soltanto che il Genio, del quale egli faceva parte, era partito per l’Italia quattro giorni prima. Ne fui particolarmente contento. Rimanemmo in Atene un altro giorno. Nel pomeriggio, dopo aver mangiato della pasta al sugo, ricevemmo quattro gallette e due scatolette di carne a testa per il viaggio. Raggiunta la stazione, ci fu comandato: “Sciogliete le righe e ci sparpagliammo nei pressi dei binari in attesa del treno. Faceva caldo ed eravamo stanchi morti. Posai lo zaino accanto a quello di Santo Rocca e mossi alcuni passi lungo il marciapiede, intasato di militari e di zaini, per sgranchire le gambe. Poi, nel tornare indietro notai che Rocca confabulava con un soldato italiano. A un certo punto egli si rivolse a me ad alta voce:Fazzari, vieni che c’è uno di Bella. Mi avvicinai ai due e riconobbi il mio compaesano Pietro Costantino. Ci abbracciammo con cordialità e grande emozione. Poi lo informai che nel nostro reparto vi erano altri due di Nicastro: Giovanni Falvo e Vincenzo Curcio. Andai a chiamarli e li misi in contatto con Costantino. Non mancarono, ovviamente, abbracci e pacche sulle spalle. Poco dopo ci sistemammo, ammucchiati come sardine, sui carri-bestiame di un convoglio appena arrivato. In stazione conoscemmo alcuni abitanti di Atene, dispiaciuti per la nostra partenza e pure preoccupati del rischio per noi di incontrare lungo il tragitto soldati tedeschi con intenzioni affatto amichevoli. In Grecia si praticava la borsa nera. Alle 20,30 partimmo per Salonicco, dove barattai una giubba ricevendo, in cambio, tre pani e un accendino con quindici pietrine. Altri miei colleghi rimediarono svariate cose: chi del pane, chi qualche pollo e chi delle sigarette. Giunti in Bulgaria, in una piccola stazione fermarono il treno e ci fecero scendere, sistemandoci alla meglio sui marciapiedi o nei paraggi. Sul posto gironzolavano dei civili disposti a comprare qualsiasi cosa o a permutarla con altra merce. Io cedetti una coperta per 500 "lei" (moneta locale), e con quel denaro acquistai delle sigarette. All’ora del rancio gli addetti alle cucine ci diedero da mangiare la solita brodaglia. Nel frattempo quel treno partì e noi si rimase in stazione per un’intera giornata, in attesa di altro convoglio. All’indomani prendemmo un treno merci, che procedeva assai lentamente e, per giunta, effettuava numerose fermate, spesso in aperta campagna. Stavamo risalendo la penisola balcanica. Dopo due giorni e due notti arrivammo in Croazia. In una piccola stazione ci autorizzarono a scendere dal treno. Santo Rocca avvicinò una donna del posto e, dopo averle dato due pezzi di sapone, tornò da noi con del pane e della marmellata, che consumammo all’istante. A me si accostò un giovanotto chiedendomi se avevo armi e munizioni da permutare con oro. Non ne avevo. Ore dopo risalimmo sui carri ferroviari e il treno ripartì. In Albania notammo che i capistazione erano italiani. A essi chiedevamo sempre se fossero a conoscenza della nostra destinazione. Tutti si stringevano nelle spalle. La loro risposta puntualmente era la stessa: “Non lo sappiamo”. A differenza che in Grecia, in Albania faceva molto freddo e, durante le varie soste, preferivamo rimanere rintanati nei carri piuttosto che scendere a sgranchirci le gambe. Qualcuno, come Costantino, per ingannare il tempo giocava a carte con un altro prigioniero. Quando il convoglio entrò nella stazione di Belgrado, notammo che soldati tedeschi, armati di tutto punto, ci stavano aspettando. Tenevano i moschetti spianati contro di noi per paura che scappassimo. Per la verità non ne avevamo alcuna intenzione. Se avessimo voluto, avremmo già colto l’occasione in precedenza unendoci ai partigiani greci. Più tardi ci diedero pane, burro e marmellata in quantità minime, irrisorie. Quelle piccolissime razioni non potevano certo soddisfare la crescente, insaziabile fame, per cui ci si doveva arrangiare in tutti i modi per cercare di integrarle. Diversi prigionieri, durante le varie fermate, sempre controllati a vista dalle guardie, si sparpagliavano nei campi vicini, perlustrando ogni palmo di terreno nella speranza di trovare qualcosa da mettere sotto i denti. Nel corso di una sosta, un commilitone addirittura si mise ad armeggiare con fili di ferro e molliche di pane usate come esca, sperando di catturare qualche uccellino. Altri scambiavano di tutto con gente del posto. Io, in quell’occasione, ho ceduto un paio di pantaloni in cambio di sette pagnotte. In un carro scoperto eravamo in sessantacinque, uno addosso all‘altro. A un certo punto si è messo a piovere e ci inzuppammo d’acqua, nonostante il telo di una tenda buttato sulle nostre teste. Arrivammo, dopo un lungo viaggio, in Ungheria. Qui una brava donna ci diede un pane di almeno tre chili e ne mangiammo un po’ tutti. Più tardi, al confine con l’Austria, i nostri zaini furono rovistati uno per uno. L’ufficiale Bassano fu disarmato dalle guardie locali il cui comportamento, a differenza di quello dei militari ungheresi, si distinse per severità e disumanità. Alla stazione di Vienna ci fecero scendere dal treno e ricontrollarono gli zaini. All’ora del rancio, quel giorno, ci diedero carne di maiale. Risaliti in treno, riprendemmo il viaggio, durato dodici giorni e dodici notti, lungo un percorso davvero tortuoso e che ci portò in Germania. Mattina del due ottobre il convoglio, carico di prigionieri e di guardie, giunse a destinazione, cioè a Luckenwalde, dove era stato allestito un grande campo di concentramento recintato con rete e filo spinato.

4 – I prigionieri in cerca di cibo nei bidoni della spazzatura

Ci rinchiusero lì. Si soffriva tremendamente la fame. La quantità di cibo, privo di sapore e soprattutto di sostanza, era tale da spingere un po’ tutti i prigionieri a rovistare tra i bidoni della spazzatura in cerca di roba commestibile da metter nello stomaco. Il rancio, distribuito una sola volta nella giornata, era costituito solitamente da un misto di rape e foglie di bietola ingiallite e buttate nel pentolone così come raccolte. Completavano la razione quotidiana duecento grammi di pane, un cucchiaino di zucchero e un pezzetto di burro. In quel campo si stava davvero male! Alcuni prigionieri, incapaci di resistere ai crampi dello stomaco, durante la distribuzione del rancio tentavano di rimediare furbescamente una seconda razione, accodandosi nuovamente agli altri davanti alla marmitta fumante. Quando qualcuno riusciva nell’intento, poteva lenire un pochino il morso della fame oppure soddisfare la voglia di fumare, permutando la seconda razione con sigarette di altri prigionieri. Nell'altro caso, cioè quando tali tentativi erano scoperti - e la cosa per la verità era assai frequente - scattavano punizioni severissime. I malcapitati e maldestri autori si beccavano dalle guardie una bella dose di pugni e calci di moschetto nei fianchi, da rimanere quasi senza fiato. La voglia di una boccata di fumo era tanta che spesso nascevano risse e scene davvero da ... bestie. Quando una guardia tedesca buttava una sigaretta, persino una semplice cicca, di là della rete, tanti prigionieri si gettavano a mucchio per raccoglierla, finendo col dare e/o col prendere spintoni e procurarsi, spesso, contusioni e graffi al contatto col filo spinato. L’inverno avanzava e la temperatura si abbassava notevolmente. Di notte, specialmente, faceva un freddo tremendo. Il pastrano e due coperte addosso non garantivano un sufficiente riparo da quel clima polare. Le dita dei piedi rischiavano facilmente il congelamento, per cui si ricorreva a delle bende improvvisate per avvolgerle e cercare di tenerle al riparo. Quando cadeva la neve, il terreno del campo diventava un autentico pantano, un misto di fango e di ghiaccio, sul quale era oltremodo faticoso procedere. Camminare in quella poltiglia significava affondare i piedi fino ai polpacci e, spesso, col rischio di finirci dentro disteso. Nei giorni sette e tredici ci praticarono delle iniezioni, disposero che facessimo tutti il bagno e ci sottoposero a disinfezione. A Luckenwalde noi prigionieri eravamo decine di migliaia, contrassegnati da un numero di matricola (a me fu attribuito il n. 123675) e raggruppati, secondo il Paese d’origine, in settori del campo già predisposti. Ben pochi vestivano ancora la divisa del proprio esercito, mentre la maggior parte indossava indumenti comuni, con il nome della nazione stampigliato sul retro. Quel posto era inospitale per qualsiasi essere umano: poco o niente per ripararci dal freddo, baracche piene di fessure, alimentazione scarsissima e tante altre indicibili costrizioni e sofferenze. Da mangiare ci davano del cibo inadeguato per quantità e sostanza, per cui tanti morivano di stenti, oltre che per maltrattamenti. La perdita di peso e di forze era consistente quanto evidente. Molti si reggevano a stento sulle gambe, sembravano scheletri viventi. Il tempo e i giorni in quel luogo infernale, delimitato da alte reti e filo spinato, scorrevano inesorabilmente con puntuale, monotona cadenza. La sveglia era data al mattino presto dalle guardie, che spesso facevano ricorso a spintoni e a calci per sollecitare chi indugiava per sonno o per debolezza. Poi i Tedeschi ci radunavano nello spiazzo antistante alle baracche e procedevano all’appello e ai controlli. Puntuali, all’ora stabilita: la sveglia, la distribuzione del rancio e il rientro serale in baracca. La Santa Messa era celebrata ogni mattina dal cappellano militare, un sacerdote talmente bravo e umano da essere assai premuroso e comprensivo anche con coloro che, qualche volta, assumevano la sacra Ostia senza essersi prima confessati. Io mi sono comunicato tutti i giorni, chiedendo puntualmente al buon Dio la grazia di farmi tornare a casa. La fame, le sofferenze di ogni tipo e la nostalgia della terra lontana lievitavano di giorno in giorno, di ora in ora. Tuttavia, neanche per un istante ci abbandonava la speranza di poter rivedere presto i nostri cari. Spesso Pietro Costantino ed io andavamo in cerca di compaesani all'interno del campo, chiedendo a tanti dei circa trentamila prigionieri italiani la loro provenienza. Un giorno rintracciammo uno di Sambiase (Fazzari non ricorda il nome), dal quale Pietro Costantino apprese che suo fratello Antonio era stato portato via da quel campo appena il giorno prima, con destinazione sconosciuta. Contrariato, se ne dispiacque molto. La sera del diciannove finalmente, fummo fatti salire su un camion per raggiungere un posto chiamato Subentra. Lì ci sistemarono, a gruppi di sei, in delle baracche di legno non certamente a prova d’intemperie. Tanti, in effetti, gli spifferi su ogni parete, per cui vento e freddo la facevano da padroni. Poco dopo, un sottufficiale tedesco ci chiese se avevamo mangiato. Ricevuta risposta negativa fece portare in ogni camerata una marmitta con dentro un misto di patate e semi di finocchio. Lo considerammo un pasto prelibato rispetto alla robaccia ingurgitata nei giorni precedenti. All’indomani ci condussero a lavorare. Per strada s’incontrava tanta gente, soprattutto civili: alcuni passavano oltre senza degnarci di uno sguardo, altri si voltavano verso di noi imprecando e profferendo parole offensive contro il maresciallo Pietro Badoglio, ritenuto responsabile del tradimento verso la Germania; altri ancora, addirittura, ci insultavano con l'epiteto “maccheroni, facendo riferimento alla tipicità di un noto prodotto alimentare italiano.Noi, ex alleati, eravamo trattati proprio male dai Tedeschi. C’era, però, chi subiva di peggio. In effetti, il trattamento riservato ai prigionieri russi era indescrivibile, umanamente intollerabile. Essi ricevevano per rancio una sorta di minestrone i cui ingredienti, a parte l’acqua, erano in misura irrilevante e di non facile identificazione. Quei poveracci soffrivano la fame in maniera assolutamente drammatica. Non è facile trovare le parole adatte a descriverla. Nel tentativo di attenuarne i morsi, quei poveracci rovistavano continuamente nei bidoni della spazzatura, spulciando minuziosamente i rifiuti alla disperata ricerca di qualcosa da mettere in bocca. Per chi riusciva a trovare, anche delle semplici bucce di patate, era un momento di compiacimento, di mal mascherata soddisfazione. E’ da aggiungere che il cibo, destinato ai russi, era distribuito quasi sistematicamente dopo tre giorni dalla sua preparazione, con la conseguenza che esso era spesso avariato e dal sapore assai sgradevole. Tra l’altro, il loro bisogno di mangiare era irrefrenabile al punto che, all’arrivo della marmitta, quei poveri russi correvano verso di essa come un branco di lupi affamati. Ognuno sgomitava per essere tra i primi a ricevere, nella deforme e arrugginita scodella, la fumante razione di brodaglia. In quelle brevi e disperate corse verso il cibo, non mancavano spintoni e parolacce, talvolta anche risse, che finivano puntualmente col richiamare l’attenzione delle guardie e col motivarne l’intervento. E le conseguenze per quei prigionieri erano ancor più disumane: colpi di moschetto sui loro già deboli corpi!

5 - Baracca sventrata da un ordigno, morti trenta Francesi

Il 25 di ottobre rimediai una bella indigestione sfociata in una debilitante quanto fastidiosa malattia. Ho chiesto più volte di essere sottoposto a visita medica, ma mi fu negata. Mi hanno mandato a lavorare ugualmente, anche col freddo e con la pioggia. Tra le altre cose mi nutrivo soltanto con un pezzo di pane giacché non riuscivo a digerire qualsiasi altra roba che, una volta messa in bocca, puntualmente rimettevo. Spesso accusavo forti bruciori di stomaco. Stavo davvero male. In quel periodo mi venne l’itterizia e solo per quel malanno ottenni appena tre giorni di riposo, trascorsi i quali ripresi regolarmente a lavorare con la neve e senza adeguati indumenti addosso. Il quattordici successivo, assieme ad altri connazionali, fui trasferito a Berlino. Anche lì un generale italiano chiese se qualcuno di noi fosse disposto ad arruolarsi come volontario a fianco dell’esercito tedesco. Accettarono soltanto in quattro, più per porre fine a una condizione psico-fisica ai limiti dell’umana sopportazione che per convinta scelta di campo. Quel giorno mi sentivo malissimo. Saltai il rancio. Non mi andava di metter in bocca nulla, tranne quel pezzetto di pane che distribuivano ogni ventiquattro ore. Un maresciallo dei carabinieri, anche lui prigioniero, provò compassione per le mie preoccupanti condizioni di salute: a fatica mi reggevo in piedi e rimettevo qualsiasi alimento. Il militare, mosso da pietà, mi cedette la sua razione di pane. La sera Curcio, rientrato dalle cucine dove era stato assegnato, portò delle patate che aveva nascosto sotto gli indumenti. Ne mangiarono tutti tranne, ovviamente, io. La piccola razione di pane quotidiana e la fede nella Misericordia Divina, alla quale facevo continuamente appello, mi assicuravano un minimo di forze; ma il giorno dell’Immacolata stavo malissimo, mi sentivo morire, non mi andava neppure di aprir bocca. Lo stato di malessere si protrasse per oltre una settimana e rimasi a letto, sul tavolaccio. Mattina di domenica, 19 dicembre, mi sentii un po’ meglio. Mi alzai, uscii nello spiazzo antistante alla baracca a prendere aria e le guardie, vedendomi in piedi e ritenendo che fossi guarito, senza pensarci su mi rimandarono immediatamente al posto di lavoro. Naturalmente quel giorno ero ridotto come uno straccio. Durante la notte suonò l’allarme e tutti a cercare riparo. Stavano bombardando Berlino. Un ordigno cadde dentro il campo e centrò alcune baracche disintegrandole. La mia rimase miracolosamente in piedi. Il 23 dicembre Curcio ebbe l’incarico di scaricare pane da un furgone e portarlo in dispensa. Eludendo il controllo delle guardie, riuscì a sottrarne quattro filoni; mentre Santo Rocca, assegnato anche lui alle cucine, rimediò dei dolci che conservammo per la festa del Natale assieme a una parte del pane. Eravamo compiaciuti di quel ben di Dio con cui avremmo potuto trascorrere la santa ricorrenza in maniera diversa dal solito. Io, intanto, cominciavo a mangiucchiare qualcosa che non il solito pane e mi sentivo un tantino meglio. Pesavo all’incirca una cinquantina di chili, tuttavia, col passar dei giorni, trascorrevo più tempo in piedi, e senza eccessivo sforzo e sofferenza. Avevo smesso di rimettere e il bisogno di mangiare aumentava. Qualche volta anche mi trovai costretto a rovistare tra i rifiuti. Le condizioni di salute restavano pur sempre precarie, ma non mi lamentavo; anzi ringraziavo il Signore per essere guarito dall’itterizia, senza aver fatto ricorso ad alcun tipo di medicinale. E pensare che, durante il decorso di quella malattia, ho rischiato di aggravare la situazione e persino di morire perché, costretto dall’allarme ad abbandonare in fretta la baracca per il rifugio, trovai fuori un freddo che penetrava nelle ossa! In quell’occasione non rimediai un altro malanno, sicuramente per la mano protettiva del Padreterno. Per alcuni giorni i Tedeschi mi mandarono a lavorare in un deposito di vestiario. Mi si offrì quindi l’occasione di portar via, nascondendo il tutto sotto il vestito, due canottiere, sei paia di calze e due di guanti; tutta roba che mi tornò poi utile contro i rigori del clima. Il 25 dicembre lavorai fino a mezzogiorno, mentre Vincenzo Curcio quel giorno fu impegnato fino a tarda sera. Lui certamente non dimenticherà tanto facilmente quel Natale segnato da un serio, quanto banalissimo infortunio capitatogli all’uscita dalle cucine. Che cosa successe? Aveva appena lasciato il locale e si accingeva ad attraversare lo spiazzo antistante. C’era buio pesto e lui, camminando a passo svelto, andò a sbattere inavvertitamente contro il timone di un rimorchio. Nell’urto, rimediò un brutto colpo in pieno stomaco. Fu subito soccorso da due guardie che, sollevatolo per le ascelle, lo trascinarono nella baracca e lo adagiarono sul tavolaccio. Ne fummo tutti dispiaciuti. Poi noi preparammo la cena e consumammo quel che avevamo messo da parte: patate, burro, marmellata e dolci. Il povero Curcio soffriva molto e non volle assaggiare niente. A mezzanotte assistemmo alla Santa Messa che il nostro cappellano celebrò servendosi di un improvvisato altarino in mezzo al corridoio. Seguimmo con religioso silenzio il sacro rito e provammo grande commozione quando il sacerdote, nel corso della sua bella e coinvolgente omelia, ha rivolto toccanti parole per le nostre famiglie. Alcuni di noi addirittura hanno pianto. Durante la funzione ho ringraziato Gesù per avermi salvato dai pericoli della guerra e di quel campo di prigionia, dove indicibili patimenti, angherie e malattie minavano, giorno dopo giorno, il corpo e lo spirito mio e degli altri prigionieri già al limite del tollerabile, e anche oltre. Quello dell’Epifania fu un giorno come tanti altri. Andai regolarmente al lavoro e per cena, assieme ai miei compaesani, consumai delle patate bollite e condite semplicemente con sale. Niente di speciale, ma eravamo contenti ugualmente perché considerammo quel frugalissimo pasto una vera provvidenza, anche nella consapevolezza che sulla tavola di tantissimi altri prigionieri, purtroppo, ci sarebbe stata la solita brodaglia e gli scarti eventualmente rimediati nei bidoni della spazzatura.

6 - Per piccoli furti, prigionieri puniti severamente

Una mattina un soldato venne a prelevarmi nella baracca e mi accompagnò in cucina a dare una mano a Pietro Costantino e agli altri. Ne fui particolarmente contento perché mi si dava l’opportunità di poter mettere nello stomaco qualcosa di più nutriente della consueta acqua calda con bucce di patate e qualche foglia di bietola. E così fu. Le cose, purtroppo, non andarono lisce fino in fondo. Successe che, nel rientrare una sera in baracca portando via alcune patate e un cappuccio, tagliato in due per meglio nasconderlo sotto gli indumenti, fui fermato da un sergente tedesco. Il militare, accortosi di quel ben di Dio, m’intimò di posarlo per terra. Sperai che almeno metà dell’ortaggio nascosta sotto un’ascella, sfuggisse al controllo. Purtroppo non andò così. Il militare, dal fisico robusto e mani carnose, mi perquisì da cima a fondo e, scoperto il resto del cappuccio, lasciò partire un tremendo manrovescio che si abbatté come un macigno sulla mia guancia destra. Io, che pesavo meno di mezzo quintale e faticavo a reggermi in piedi, per miracolo non finii per terra. Il colpo però lasciò il segno: ne risentii tutta la notte e pure il giorno seguente. Per fortuna il sergente non prese altri provvedimenti e, al tirar delle somme, mi andò bene perché ad altri, per furti anche meno gravi, solitamente venivano comminate punizioni ben più severe. Un giorno mi misi a osservare gruppi di prigionieri russi costretti a marciare sotto una pioggia a dirotto. Erano stanchi e inzuppati fradici. Alle loro spalle guardie che intervenivano spesso colpendo con il calcio dei loro moschetti coloro che si piegavano a raccogliere cicche di sigarette o si attardavano per stanchezza, intralciando la marcia degli altri. A un certo punto si udirono delle urla, delle parole allarmate e allarmistiche pronunciate sia dai prigionieri sia dai militari della Wehrmatch. Seguì un fuggi-fuggi generale. Mi resi conto che era in atto un’incursione aerea anglo-americana e che presto sarebbero piovute delle bombe sulla città. Cercai riparo anch’io. Sapevo bene cosa significasse trovarsi sotto un bombardamento. Mi era capitato appena qualche giorno prima quando io, Pietro Costantino, un certo Fonte e altri connazionali siamo stati accompagnati da guardie tedesche alla stazione per essere trasferiti a Monaco. In quell’occasione, mentre eravamo a poca distanza dalla linea ferrata, piovvero dal cielo centinaia di bombe che letteralmente distrussero quel nodo ferroviario. Fu per puro miracolo se non ci lasciammo le penne. Rimediammo, tuttavia, una bella dose di paura. A febbraio ancora bombardamenti su Berlino. La città divenne bersaglio, pressoché tutti i giorni, d’incursioni aeree nemiche e nelle strade, tra cumuli di polvere e di macerie, giacevano tanti cadaveri dilaniati dalle schegge. In quel periodo con Falvo e Rocca lavoravo nelle cucine. Lì, da qualche tempo, con le mansioni di cuoco era stato assegnato Pietro Costantino dietro interessamento di un ufficiale tedesco che lo aveva preso in simpatia. Mangiammo tante cose buone, anche dolci e caramelle. La sera, rientrando nella baracca, ne portai a Curcio e a Tedesco. In seguito con altri prigionieri fui trasferito in un campo di aviazione, dove il clima era ancor più rigido: tirava un forte vento e faceva un freddo da cani. Per mitigare quella temperatura polare i Tedeschi in servizio avevano acceso ai bordi della pista dei fuochi per riscaldarsi. A noi era impedito di avvicinarci con minacce e calci di fucile. Una sera suonò l’allarme e caddero sull’aeroporto degli ordigni sganciati da “fortezze volanti” per renderlo inutilizzabile. Allontanatisi gli aerei, i Tedeschi non ci diedero neppure il tempo di riprenderci dallo spavento per il pericolo corso; ci spinsero fin sulla pista per richiudere le tante buche prodotte dalle bombe. Il tredici di marzo il comando della Wehrmatch ordinò che tutti i prigionieri utilizzati in quel campo di aviazione fossero riportati a Berlino. Nell’elenco figurava pure Pietro Costantino che inutilmente il capitano tedesco tentò di trattenere perché ne apprezzava le qualità di uomo e soprattutto di cuoco. Costantino pose all’ufficiale la seguente condizione: “O restiamo tutti e sei oppure vado via con loro”, riferendosi a noi compaesani. Il mattino seguente partimmo tutti. Giunti in stazione, a Berlino, notammo una trentina di connazionali utilizzati nel ripristino dei binari. Quei poveracci erano tutti ridotti, chi più e chi meno, "pelle e ossa"; facevano fatica a sollevare mazze e picconi; sembravano dei cadaveri in piedi, ma alquanto instabili sulle gracili gambe. Tra di essi individuai un bersagliere di Catanzaro al quale porsi un pezzo di pane e qualche patata. Avrei voluto fare qualcosa anche per i suoi sfortunatissimi compagni, ma non avevo nient’altro. Poco dopo quei prigionieri furono aggregati al nostro gruppo con destinazione Berlino e poterono almeno salvare la pelle perché su quel tratto di linea ferrata caddero, a distanza di pochissimo tempo, numerose bombe che la disintegrarono. A Berlino ci condussero a fare il bagno e fummo sottoposti a disinfezione. Ricevemmo tutti una sorta di “pass” per andare a lavorare presso aziende private di Biesdorf e di Carlottemburg. Io e Falvo assieme ad altri prigionieri finimmo in una ditta operante nel settore dell’elettricità. Speravamo che le cose in fatto di vitto andassero meglio, invece rimanemmo parecchio delusi. Lì soffrivamo di più la fame. Nessuno si curava di darci da mangiare. Il cibo dovevamo procurarcelo da soli cercando, durante le pause da lavoro, di rimediarlo nelle campagne circostanti raccogliendo tutto ciò che ci sembrava commestibile. Un giorno ebbi la fortuna di trovare, all’interno di un casolare diroccato, delle patate mezze marce. Le misi a cuocere in una latta in parte arrugginita rinvenuta sul posto, e con quella roba potei frenare i morsi dello stomaco. Qualche tempo dopo Curcio, Costantino e Rocca furono trasferiti a Spandau mentre io rimasi a Berlino. Avendo il “pass”, nelle ore diurne avevo la possibilità di muovermi nella città con una certa libertà, nonostante la presenza di soldati tedeschi di guardia nelle vie principali. Spesso raccoglievo legna nei campi e la portavo in varie abitazioni, rimediando spesso per ricompensa roba da mangiare. Alcune massaie, mosse da compassione verso di noi prigionieri affamati e male equipaggiati, ogni tanto ci offrivano del cibo caldo e degli indumenti usati curando, in quelle rare occasioni, di eludere l’attenzione e il controllo dei militari in servizio. Ed erano dei gesti particolarmente importanti per noi giacché utili tanto al fisico quanto al morale. Quelle attenzioni umanitarie, tra le altre cose, alimentavano in noi la fede e la speranza nella divina Provvidenza.

7 - I rigidi controlli nei campi di prigionia

La sera veniva distribuito il rancio: una brodaglia, composta generalmente da rape e da foglie di bietola, accompagnata da un pezzetto di pane che uno metteva in bocca appena preso nelle mani. Dopo aver consumato quella misera cena, dovevamo rimanere nello spiazzo antistante alla baracca per la conta dei presenti. Un’incombenza quotidiana cui ci sottoponevano i Tedeschi volendosi assicurare che nessun prigioniero si fosse, nel frattempo, dato a una comunque improbabile fuga. L’obbligo era di rimanere fermi, quasi sugli attenti, anche quando pioveva a dirotto. Per i trasgressori erano previste delle severe punizioni tra cui quella di eseguire, con qualsiasi condizione di tempo, una serie di flessioni a terra servendosi delle sole braccia. Da tali pene non era esentato neppure chi non aveva la forza necessaria per eseguire quei debilitanti esercizi. Non c’era pietà per alcuno. Al gracchiare delle sirene che segnalavano incursioni di bombardieri nemici – e la cosa capitava spesso – bisognava lasciare tutto e correre al rifugio. Rientrato l’allarme, le guardie procedevano al solito controllo dei prigionieri. Stessa conta al mattino per coloro che lasciavano il campo per recarsi ai posti di lavoro. Il 19 marzo, festa di San Giuseppe, lo abbiamo trascorso male. Il rancio non fu distribuito per cui dovemmo osservare, purtroppo, un digiuno assoluto. Il giorno dopo per me andò meglio poiché, essendo stato spostato in altra zona per dare una mano a gente del luogo, all’ora del pasto potei accostarmi a una capace marmitta fumante; essa conteneva la solita brodaglia, però, contrariamente al solito, noi prigionieri eravamo liberi di consumarne a volontà. Con il vuoto nello stomaco che mi ritrovavo da giorni, affondai più volte la scodella e trangugiai forse una dozzina di litri di quella roba. Nei giorni successivi fui trasferito a Schooneberg, dove incontrai un militare tedesco di animo buono. Impietosito dal mio aspetto fisico, di nascosto mi mise nelle mani un buono col quale potei ritirare in un forno due panini per complessivi cento grammi. A Schooneberg ho lavorato in vari posti, anche in una farmacia. E lì, per la verità, di tanto in tanto i dipendenti mi offrivano del cibo. Dopo qualche giorno fui ricondotto a Berlino. Il 21 di giugno suonò l’allarme e la città rimase completamente al buio mentre dal cielo pioveva di tutto. Ci ritrovammo nel bel mezzo di un turbinio di polvere, calcinacci e pezzi di carta bruciata. Un ordigno esplose a una decina di metri dal riparo di fortuna trovato da me e da Rocca. Quella volta l’abbiamo scampata per puro miracolo perché una bomba incendiaria, caduta a pochissima distanza, rischiò di mandare in fiamme il caseggiato attiguo al muretto dietro al quale c’eravamo rannicchiati. Un altro giorno, mentre gironzolavo, assieme ad altri compagni di prigionia, nei campi in cerca di roba da mangiare, entrai in una casa semidistrutta dai bombardamenti e disabitata. In un angolo, al pian terreno, vi trovai una discreta quantità di provviste, soprattutto patate. Ne portai via soltanto poche, avendo ritenuto saggio lasciare lì tutto il resto. Non c’era posto migliore di quei ruderi per tenere nascoste le preziosissime scorte alimentari che, in quei tempi di guerra e di carestia, avrebbero indiscutibilmente fatto gola a molti. Oltretutto sarebbe stato imprudente trasportarne una quantità maggiore sapendo di dover rientrare nel campo e passare davanti alle guardie. Assieme ad alcuni compaesani nei giorni seguenti provvidi con circospezione a recuperare altri piccoli quantitativi di quella provvidenziale riserva. Non potevamo assolutamente rischiare di farcela soffiare da sotto il naso per disattenzione o imprudenza. Un po’ per volta attingemmo a quel ben di Dio fino a esaurimento. Tuttavia, una sera una delle guardie si accorse che tenevamo nelle tasche roba da mangiare e ne chiese la provenienza. Dichiarammo di averla rinvenuta per terra, in aperta campagna, e la bugia passò per verità. Infatti, quel soldato non trovò nulla da ridire. Chiuse addirittura un occhio per quelle sostanze alimentari che per regolamento avrebbe dovuto sequestrare. A lui importava quasi esclusivamente che noi non ci si allontanasse troppo dalla zona posta sotto il suo controllo e non gli si creassero dei problemi.Una mattina - ricordo che quel giorno era il dodici di giugno, vigilia della festa in onore di Sant’Antonio da Padova - potei finalmente gustare pasta asciutta. Quel cibo lo ebbi da un anziano signore di Berlino grato di avergli sbrigato una piccola faccenda di casa. La gradita pietanza invero era poca: sì e no una cinquantina di grammi; la mangiai con gusto e con avidità. E ringraziavo sempre il Signore per quel che ricevevo dalla divina Provvidenza, considerandomi più fortunato di altri prigionieri che col digiuno più estremo dovevano, purtroppo, convivere quotidianamente. Gli occhi al Cielo li rivolgevo spesso: ringraziavo soprattutto il Padreterno perché ero ancora vivo in quell’autentico inferno causato dalla guerra. Il pericolo di lasciarci le penne era costantemente dietro la porta. Berlino era sottoposta a continui bombardamenti da parte di “fortezze volanti” anglo-americane, i cui micidiali ordigni radevano al suolo interi quartieri e lasciavano tra le macerie, purtroppo, migliaia di vittime. Nottetempo una bomba centrò in pieno una baracca del campo, a poca distanza dalla nostra, occupata da prigionieri francesi. Nell’esplosione morirono ben trentadue transalpini e tanti altri rimasero feriti, alcuni in maniera piuttosto seria. Un’autentica tragedia nella tragedia.

8 - L’incontro tra Pietro Costantino e il fratello Antonio

Alcuni giorni dopo quel tragico evento, Pietro Costantino incontrò casualmente uno di Sambiase, un certo Renda dal quale apprese che suo fratello Antonio, arruolato in Marina, era vivo ed era rinchiuso nello stesso campo di concentramento, ma in un settore diverso. Rintracciarlo non era per niente facile tra quelle migliaia di prigionieri (soltanto gli italiani erano trentamila!) ammucchiati come sardine e vestiti in modo quasi uniforme, rintracciabili soltanto attraverso il numero di matricola e la nazionalità stampigliati sui loro logori abiti. Pietro stentava a credere alle proprie orecchie, non stava nella pelle. La notizia che il fratello era vivo e si trovava a pochi passi da lui, aveva qualcosa di veramente sorprendente, di miracoloso. Poi un fremito lo colse e gli occhi gli s’inumidirono di lacrime. Subito incalzò il Renda: Come sta?”, “dov’è?”, “come potrò vederlo?”. Tranquillizzato sulle condizioni di salute del congiunto, Pietro implorò il sambiasino perché lo aiutasse a rintracciare Antonio e gli recapitasse un biglietto che si apprestò a scrivere. Con mano tremante per l’emozione buttò poche parole su un pezzetto di carta e glielo porse. Tre giorni dopo l'attesa risposta. In essa Antonio esprimeva grande contentezza per la bella sorpresa, assicurava di stare relativamente bene, dichiarava di essere ansioso di incontrare presto suo fratello e di abbracciarlo. La breve missiva terminava con l’auspicio di poter entrambi tornare presto nella loro casa di Bella, dagli amatissimi genitori. Pietro, riuscì a stento a trattenere le lacrime per la gioia. Poco dopo si avviò verso il posto di guardia. Al sottufficiale, un sergente dai modi rudi ma in fondo meno disumano di tanti altri tedeschi, chiese se era possibile incontrare suo fratello ed eventualmente unirsi a lui. Il graduato si strinse nelle spalle avvertendo che la cosa non sarebbe stata agevole; tuttavia, mostrando disponibilità e comprensione, assicurò che si sarebbe adoperato al meglio per aiutarlo. E così dicendo, aprì un cassetto della scrivania, prese un modulo e lo porse a Pietro Costantino invitandolo a formulare la richiesta e a sottoscriverla. Circa una settimana più tardi Costantino fu convocato dal sergente e apprese con vivo compiacimento che la domanda era stata positivamente esaminata dal comandante del campo e che presto il fratello sarebbe stato spostato al nostro settore. E così fu. La soddisfazione di stare con Antonio fu per noi breve. Difatti, vigilia di ferragosto giunse l’ordine che i due Costantino dovevano essere trasferiti ad altra sede. Pietro si dispiacque molto per il fatto di doversi separare da noi altri, dopo aver condiviso, per circa undici mesi, la dura prigionia e le sue disumane condizioni. La mattina seguente, giorno della Madonna di Dipodi (Giuseppe Fazzari nel citare le date fa spesso riferimento alle ricorrenze religiose), con nostro e loro disappunto, essi lasciarono il campo mentre noi altri ci avviammo rattristati verso il posto di lavoro. Una sera, rientrando al campo, trovammo la baracca messa a soqquadro dai soldati tedeschi. Essi stavano procedendo a un’ispezione e, avendo trovato un insolito quantitativo di paglia che ipotizzavano potesse servire a incendiare la baracca e creare condizioni favorevoli per un tentativo di fuga o per altro inspiegabile disegno, montarono su tutte le furie. Esaminarono accuratamente pavimento, pagliericci e persino le pareti della baracca, gettando per aria ogni oggetto che capitava loro sotto mano. Andavano in cerca di chissà quali altri materiali sospetti o di botole che nascondessero cunicoli con uscite di là della recinzione. Ci trattennero fuori della baracca per un bel po’ consentendoci di entrarvi solo al termine di una dura punizione. Fummo costretti a strisciare, pancia a terra, su un tratto di terreno simile a un pantano per la pioggia caduta in precedenza, da percorrere per giunta più volte. Dopo circa un’ora di quella disumana costrizione, eravamo irriconoscibili per il fango e incapaci di reggerci in piedi per il dispendio di energie sottratte alle già ridottissime riserve conseguenti al prolungato digiuno. I giorni si susseguivano con monotona cadenza: stessi orari, stessi obblighi, stesse necessità, stesse sofferenze. Il pensiero andava spesso alla terra lontana, ai nostri familiari con i quali un contatto telefonico o epistolare era alquanto difficile, se non addirittura impossibile. Da casa ho ricevuto in tutto tre lettere: la prima il 19 luglio, la seconda la vigilia di ferragosto e la terza a fine agosto. Usufruii anche di un solo contatto telefonico ai primi di agosto. Quanta gioia quando mi fu recapitata la prima corrispondenza da casa. Non avevo notizie dei miei familiari da oltre un anno e quella lettera la aprii con trepidazione e impazienza, volevo sapere notizie di tutti. Un giorno un ufficiale tedesco ci chiese se volevamo essere considerati dei civili e non più militari purché disponibili a lavorare nelle fabbriche di munizioni. Nessuno, a cominciare dai fratelli Antonio e Pietro Costantino non ancora trasferiti, volle firmare il documento di accettazione. Né in quell’occasione fu convincente la minaccia delle armi spianate contro di noi da un plotone della Wehrmatch. Il ventidue dello stesso mese di agosto, in pratica un paio di giorni dopo, i tedeschi ritornarono con la stessa proposta, solo che usarono le maniere forti: a ciascuno di noi puntarono una pistola sul petto e promisero che avrebbero fatto fuoco in caso di rifiuto. Ci costrinsero in pratica a firmare il modulo e ci trasferirono subito in un altro campo. Nel primo rimasero soltanto sette italiani giacché in condizioni fisiche piuttosto precarie. La sera ci fu concessa libera uscita, ma non sapevamo, dove andare. Sembravamo delle pecore smarrite, senza idee e senza soldi. E non capivamo nulla di tedesco!

8 - Il lavoro nelle fabbriche e la misera “paghetta”

Dopo qualche giorno ci adattammo alla nuova situazione e all’ambiente. A distanza di due - tre mesi ricevemmo per compenso del denaro appena sufficiente per consumare in una trattoria una minestra di verdure, non molto dissimile da quella distribuita nel campo di concentramento, oppure altre pietanze di scarso valore nutritivo. Per le patate era necessario esibire una tessera. E noi non l’avevamo. Il giorno di Ognissanti andai regolarmente a lavorare mentre all’indomani marcai visita ed ebbi tre giorni di riposo. Accesi delle candele per le anime sante del purgatorio e le sistemai accanto a un’immagine della Madonna posta accanto al pagliericcio. La sera vi fu un prolungato bombardamento. Piovve giù qualcosa come cinquanta - sessanta bombe. Temevo che qualcuno di noi ci lasciasse la pelle, per fortuna il buon Dio anche quella volta ci ha protetti. Giorno del "S. Rosario" andai in Chiesa e ascoltai la Santa Messa. Il ventidue successivo i Tedeschi autorizzarono un collegamento via radio con l’Italia e potemmo comunicare con i familiari e fornire loro notizie sulle nostre condizioni e sulla situazione. A San Martino, 11 novembre, assieme ai compaesani Rocca, Curcio, Falvo, Tedesco e Pucci, e a tale Nicoletti Carmelo da Roccabernarda, si è festeggiato e brindato con della birra, senza preoccuparci minimamente della sirena che di tanto in tanto squarciava l’aria di tutta la zona. A essa eravamo ormai abituati. Dopo l’ispezione eseguita nella baracca e il ritrovamento di materiale ritenuto sospetto, i Tedeschi stabilirono di anticipare alle ore 20 il rientro per la notte di tutti i prigionieri. Quella disposizione era valida soltanto per i giorni feriali e riguardava anche noi che, forniti di speciali pass, trascorrevamo le giornate fuori dal campo per prestare lavoro nelle fabbriche, in aziende agricole o presso famiglie berlinesi. Chi era beccato fuori dalle baracche dopo tale orario, finiva immancabilmente in cella di rigore, rimanendovi per almeno tre giorni e in condizioni di trattamento indescrivibili. Per il resto, la solita routine. Il cinque dicembre, mentre davo una mano in un ospedale come inserviente, suonò l’allarme. Uscii subito e vidi il cielo coperto quasi interamente da centinaia di apparecchi pronti a sganciare tonnellate di bombe sulla città. Cercai subito un riparo e il buon Dio mi protesse anche in quella circostanza. Per le vie di Berlino qualche volta incontravo i fratelli Costantino inseriti nei turni di notte in una fabbrica di munizioni. Terminato il lavoro e trascorsa qualche ora di necessario riposo, gironzolavano per la città curiosando davanti alle vetrine di alcuni negozi. Con loro ho trascorso dei momenti di relativa spensieratezza. Avevamo poco denaro in tasca, residuo della nostra “paghetta” da me integrata con qualche spicciolo ricavato aggiustando scarpe nelle ore serali. E così, di tanto in tanto, ci permettevamo di entrare in trattoria per una birra o per qualche piatto caldo, solitamente un minestrone fatto di erbe e altri intrugli. Anche il giorno dell’Immacolata lo abbiamo trascorso insieme, permettendoci per pranzo cose buone in un modesto ristorante dove consumammo con avidità rape miste a grano macinato, poi del burro, del formaggino, una fettina di salame e 375 grammi di pane. La sera, seduto sul pagliericcio, non pensavo ad altro che alla difficile situazione in cui ci trovavamo noi prigionieri. Mi assalivano i soliti pensieri, ero triste, preoccupato, in preda a grande sconforto. Il pensiero di casa e dei familiari era fisso nella mia mente. Avevo spesso voglia di piangere e a stento riuscivo a trattenere le lacrime per non farmi notare dai compagni. In quei giorni ho pure accusato un forte mal di denti seguito dall’estrazione di due molari. La mia condizione psico-fisica in quel periodo era davvero per niente invidiabile. Vigilia di Natale sono stato esentato dal lavoro e nella tarda mattinata, assieme a Rocca, a Falvo e ai fratelli Costantino, aggregatisi alcuni minuti prima, mi recai in chiesa per la Santa Messa. Curcio, Tedesco e qualche altro commilitone preferirono assistere a quella delle ore 13. La sera, dopo una frugalissima cena, abbiamo trascorso qualche oretta giocando a carte e ascoltando musica da un grammofono. L’indomani, giorno del Santo Natale, ci siamo recati in un cinema italiano per assistere alla proiezione del film “Villa da vendere” seguito da un piccolo varietà e poi dal sorteggio tra gli spettatori di alcuni, modestissimi premi. Falvo fu fra gli estratti ed ebbe per premio un chilo di pasta. La giornata festiva è stata completata da una cena sicuramente più sostanziosa e più gustosa: con la farina portata da Costantino, abbiamo preparato della pasta di casa che mettemmo a cuocere assieme a quella vinta da Falvo. A tavola eravamo in dieci: io, Rocca, Falvo, Curcio, Tedesco, i fratelli Costantino, Pucci, Nicoletti e Fratìa di Maida. La sera del 30 dicembre l’abbiamo trascorsa in centro, in Alexander Plaz, e ci siamo divertiti un po’. Il pomeriggio seguente andammo nuovamente a cinema. Appena dentro il campo, all’ora del rientro serale, fu dato l’allarme di un’imminente incursione aerea. Corremmo nei rifugi rimanendovi fino a mezzanotte. Rientrato in baracca e preso posto sul pagliericcio, recitai puntualmente le preghiere. Quella notte non riuscii a prender sonno, se non dopo un bel po’. Pensavo ai genitori, ai fratelli, agli altri parenti lontani. E alla ricorrente domanda rivolta a me stesso, quando li rivedrò, non sapevo proprio cosa rispondere.

9 - Le "fortezze volanti" alleate, le sirene d'allarme, gli spari della contraerea

Il primo dell’anno nuovo, durante la Messa delle 11,30, proprio nel momento in cui il sacerdote alzava il sacro calice, si sentì forte l’urlo della sirena. Seguì un fuggi-fuggi tra spintoni e qualche caduta, mentre esplosioni di bombe e spari della contraerea squarciavano l’aria. Ognuno cercò di trovare riparo, dove gli capitava e dove poteva. Il coprifuoco durò sino alle 13,15. Cessato l’allarme, tornai alla baracca. Ad attendere me e gli altri c’era uno di Sambiase (Fazzari non ricorda il nome) col quale ci siamo intrattenuti fino a tarda sera. Tra di noi parlavamo delle solite cose: della famiglia lontana, delle condizioni disumane in cui si viveva, degli acciacchi da ciascuno lamentati, soprattutto della maledetta guerra che non sembrava avere termine. A proposito del conflitto alcuni sostenevano che esso sarebbe durato non più di un mese, visti gli ultimi sviluppi con le Forze di liberazione ormai alle porte di Berlino; altri invece si dichiaravano pessimisti al riguardo e non nascondevano il timore di finire da un momento l’altro sotto i massicci bombardamenti anglo-americani su Berlino e sull’intera Germania. Una mattina l’allarme fu dato nelle primissime ore e dovetti uscire in fretta e furia, mezzo nudo e con un freddo che penetrava nelle ossa. Rischiai una bella bronchite. Sera di Capodanno trascorremmo dei momenti di relativa serenità e spensieratezza; tacque la stridula sirena e nessun bombardiere nel cielo di Berlino. Approntammo per il cenone una tavola con tanta roba buona: pasta, patate, un po’ di carne, burro, salame e del pane sia bianco sia nero. Il giorno dopo finì la … tregua. Le sirene ripresero a gracchiare, il solito fuggi-fuggi verso il rifugio, gli orari e le incombenze da rispettare nel campo e fuori, la consueta brodaglia per rancio, ecc. Il 3 di febbraio l’ennesima incursione aerea anglo-americana mi colse in strada. Ero con Curcio e con altri tre compagni di prigionia. Istintivamente tutti e cinque cercammo riparo tra i ruderi di una casa già centrata da un ordigno. Sopra le nostre teste passò una prima formazione di “fortezze volanti” che sganciarono migliaia di ordigni sulla città. A breve distanza ne seguirono delle altre che spalancarono i loro ventri e lasciarono cadere un più consistente e devastante carico. Noi tremavamo per la paura e pregavamo Iddio di salvarci da quell’inferno di fuoco e di schegge impazzite durato almeno un paio d'ore. Al termine della massiccia incursione aerea uscimmo dal nascondiglio. Restammo a bocca aperta nel vedere case rase al suolo, sedi stradali squarciate, cumuli di calcinacci e strati di polvere a far da coltre a tutto. Dovunque erano fiamme, fumo, macerie e corpi senza vita. Pochissima gente in giro. In una delle strade rese poco agibili dai bombardamenti, alcuni civili scavavano disperati tra le tante macerie alla ricerca di persone e di cose care. Nessun militare in giro. La situazione sembrava offrirci una buona opportunità per darcela a gambe. Ne discutemmo tra noi e decidemmo che la cosa migliore da fare a quel punto era di prendere un treno e tentare il rientro in Italia. Ci dirigemmo verso la stazione centrale. Lungo il tragitto notammo un forno aperto e vi acquistammo del pane e dei dolci per il viaggio, attingendo ai pochi spiccioli rimasti nelle tasche. Giunti in stazione ci rendemmo subito conto che non saremmo mai partiti da quel posto. Sui binari treni vuoti e nessun ferroviere nei dintorni. Nessuna delle poche persone viste nei paraggi seppe dirci se e quando qualche treno sarebbe partito. Decidemmo allora di raggiungere una stazione secondaria di Berlino, non molto distante, sperando di trovare lì un convoglio in partenza, ma la linea ferrata era stata messa fuori uso dalle bombe. Non ci rimase altro da fare se non raggiungere “Alexander Plaz”, dove speravamo di incontrare nostri connazionali e con essi trovare il modo di allontanarci al più presto dal capoluogo tedesco. In quell’importante piazza ci attendeva però una situazione indescrivibile, un vero inferno. Finimmo dentro una cortina di fumo, di polvere e di fiamme. Non si vedeva un bel niente, al punto che io e Curcio ci chiamavamo spesso a vicenda, per essere sicuri di non perderci.Che cosa stava succedendo in “Alexander Plaz”? Crollavano tetti, cadevano calcinacci. Parti di muro e travi avvolte dalle fiamme finivano sul selciato. Sulle nostre teste incombeva il pericolo di finire tra quelle macerie colpiti da pezzi di cornicioni frantumati dalle bombe. Istintivamente ci coprivamo il capo con le mani, pur sapendo che esse sarebbero servite a ben poco. Ci mettemmo a correre come forsennati, volevamo tirarci fuori al più presto da quella densa nube di fumo e polvere. L’aria era irrespirabile e gli occhi lacrimavano. Avvertivamo spesso bruciori ai piedi male equipaggiati e posati inavvertitamente su tizzoni ardenti. In mezzo a quell’inferno si delineò per un istante la figura di un nostro commilitone, Paolo Zumpano da Roccabernarda. Non lo rivedemmo mai più. Io e Curcio corremmo per almeno sei lunghissime ore, riuscendo finalmente a venir fuori da quella bolgia. Poco dopo notammo un treno in movimento, diretto verso la periferia. Vi saltammo sopra prendendo posto assieme ad altra gente in fuga. Alla fermata del convoglio tutti giù. Noi riprendemmo a correre. Dopo un bel tratto di corsa affannosa, senza volerlo ci ritrovammo sulla strada del campo di concentramento, ancora distante. In definitiva era la destinazione più conveniente da raggiungere giacché avremmo incontrato gli altri compaesani e potuto decidere con loro il da farsi; non era altresì da escludere l’intervento delle Forze alleate per liberarci e riportarci in Italia. Mentre procedevano in quella direzione parlando, appunto, dell’opportunità di rientrare al campo, sopraggiunse una macchina e ottenemmo un passaggio per un breve tratto. Durante il tragitto tremavamo ancora al pensiero del brutto quarto d’ora passato tra quelle macerie. Io e Curcio convenimmo di doverci ritenere nati una seconda volta. Scesi dalla vettura, diretta altrove, ci avviammo verso il … familiare reticolato.

10 - “S.S.” tedesche rastrellano donne e bambini, usati come ostaggi

Alla periferia di Berlino, in un crocevia solitamente trafficato, notammo un paio di autocarri fermi al centro della carreggiata e una squadra di “S.S.”, nota milizia di hitleriana memoria, impegnata a rastrellare chiunque, per sua sciagurata sorte, si trovasse a passare da quelle parti per lavoro o per altra necessità. Quei Tedeschi non badavano né all’età né al sesso delle persone finite nella loro rete. Nessuna distinzione di sorta e nessuna pietà. Le spingevano, con la forza e la minaccia delle armi, all’interno degli autocarri. Le alte sfere del comando tedesco avevano deciso, quale ultima risorsa strategica, di schierare degli ostaggi umani negli avamposti, nel tentativo di porre argine alla dilagante avanzata delle forze alleate. E così in quel calderone d’inermi civili o di malcapitati prigionieri sono finiti anche tante donne e persino bambini. Io e Curcio riuscimmo per puro miracolo a sottrarci al drammatico rastrellamento. Intuimmo subito le spregevoli intenzioni dell’efferata polizia tedesca e, senza farci notare, fummo lesti a imboccare un vicolo e ad allontanarci a gambe levate. Raggiungemmo, trafelati e ancora tremanti per il pericolo corso, il campo e la nostra baracca, buttandoci subito a corpo morto sul tavolaccio per riprendere fiato ed energie. Eravamo stanchissimi, in condizioni davvero pietose e soprattutto ancora in preda a un’irrefrenabile tremarella. Ci pesava nelle mani persino il poco pane comprato dal fornaio! Nel campo la vita di prigioniero riprese quasi come prima, quasi non fosse successo niente. La mattina seguente, 4 febbraio, feci per alzarmi ma dovetti rinunciarvi. Le gambe mi facevano tremendamente male, mi sentivo il corpo tutto indolenzito. Mi sdraiai di nuovo, senza però chiudere occhio. Dopo un po’ ricordai di dover rammendare i calzoni e mi misi seduto, sia pure malvolentieri. Quei pantaloni non erano miei, li avevo avuti in temporaneo cambio da un prigioniero siciliano, un certo Di Giacomo, al quale in precedenza avevo prestato la mia divisa militare al completo: pantaloni, giubba, pastrano, scarpe e gambali. Mi disse che gli servivano per farsi una foto. Forse non era vero. Quella sera stessa fu arrestato perché faceva mercato nero. E così io rimasi in pratica nudo, avevo a disposizione solo quei pantaloni da rattoppare. Mi armai di santa pazienza e, con ago e filo, feci del mio meglio. Sera del 5 febbraio le precarie condizioni di salute non mi permisero di riprendere il lavoro. Chiesi di essere sottoposto a visita medica che ottenni e mi fu concesso un turno di riposo. Rimasi ovviamente nella baracca e dedicai parte della giornata al mio diario. All’indomani mi recai in ospedale, dove ero stato assegnato per aiutare gli addetti a manutenzioni varie. Nel tardo pomeriggio, appena rientrato nel campo, avvertii forte e prolungato lo stridulo suono della sirena. Abbandonai di corsa la baracca per mettermi al riparo e mi ritrovai nel bel mezzo di una massa di prigionieri in preda al panico. Eravamo almeno un migliaio. Memori della tragica fine dei francesi uccisi all’interno della baracca da una bomba, correvamo tutti al rifugio tra spinte e cadute, tra grida di aiuto e invocazioni ai Santi. Un caos indescrivibile. Nei giorni successivi, puntualmente scanditi dagli stridii delle sirene, appresi con dispiacere che Rocca e Falvo stavano per essere trasferiti dai Tedeschi in un posto di lavoro più lontano, sempre alla periferia di Berlino. Andavano a integrare con altri prigionieri, le file di operai utilizzati nelle fabbriche di munizioni per ordine di Albert Speer, ministro per gli armamenti (definito “l’architetto di Hitler”), il quale pretendeva a tutti i costi che si raddoppiasse la produzione di armi. Mi rattristò molto il pensiero di dovermi separare da quei carissimi amici. Sulle prime sperai che la notizia fosse infondata confidando nella situazione d’incertezza di quella fase della guerra, con l’esercito tedesco sull’orlo della disfatta e quello sovietico in procinto di entrare trionfalmente in Berlino. Raggiunsi subito la fureria, dove Santo Rocca lavorava da qualche tempo, per accertarmi se era ancora lì. Vi trovai invece chi già lo sostituiva. Tornai sui miei passi triste e amareggiato. Per giunta mi venne un forte mal di testa e non trovai di meglio che rientrare in baracca e stendermi sul tavolaccio. Era domenica e saltai, purtroppo, la Santa Messa. La settimana seguente i Tedeschi prelevarono dieci prigionieri italiani, tra cui io e Curcio, per scavare delle buche all’interno di un cimitero e seppellire i tanti cadaveri recuperati nelle strade e nelle case, tra le macerie. Quanto strazio tra i familiari nell’individuare propri congiunti fra quelle incolpevoli vittime di ordigni o di muri crollati! Giorno di S. Vincenzo, cinque di aprile, non andai a lavoro. Ne fummo tutti esentati perché la notte precedente l’avevamo trascorsa correndo più volte dal campo al rifugio e viceversa, per via del susseguirsi di allarmi e incursioni aeree. E così sono rimasto nella baracca fino alle undici, ora in cui fui svegliato da due colleghi, Nicoletti e De Marionis (la grafia non è chiara e il vero cognome di quest’ultimo probabilmente sarà storpiato), con cui mi recai a raccogliere cicorie in un terreno incolto poco distante. Ne raccogliemmo poche perché ancora una volta la sirena squarciò l’aria e guadagnammo precipitosamente il rifugio. Tornata la calma e riacquistata un po’ di tranquillità, mettemmo a bollire quel piccolo quantitativo di verdura selvatica, consumata senza preoccuparci del sapore che lascio immaginare, non avendo potuto utilizzare alcun condimento, sale compreso. La sera cenai con la brodaglia distribuita dai Tedeschi, poi andai subito a letto sperando che quella notte la maledetta sirena tacesse e potesse concedere, a me e agli altri, un momento di relativo riposo. Essa per la verità tacque, tuttavia non ne trassi alcun beneficio perché il solo pensiero che potesse gracchiare da un momento all’altro, mi teneva già desto. Il mattino seguente, mezzo assonnato, non me la sentivo proprio di riprendere il lavoro. Tentai inutilmente di ottenere almeno un giorno di riposo. Mi fu negata persino la visita medica. Al ritorno dal presidio sanitario, m’imbattei in un addetto alle cucine che cercava aiutanti per pulire rape. Con piacere mi aggregai a lui e raggiunsi quel reparto. Lì, non solo trovai cose buone da mangiare, quanto recuperai del pane che portai via di nascosto per consumarlo la sera nella baracca. Il 7 di aprile, usufruendo di una sosta lavorativa, pensai bene di andare a trovare Di Giacomo, il prigioniero siciliano al quale avevo prestato la mia divisa. Egli era uscito dal carcere da qualche giorno. Ripresi i miei abiti tranne il cappotto, consegnatomi poco dopo da Rocca che lo aveva recuperato per mio conto ore prima. Giorno venti mi alzai per andare al lavoro, ma ne fui impedito dall’allarme scattato proprio in quei momenti e che mi costrinse a rimanere nella baracca. Ancora una pioggia di bombe su Berlino mentre assordante era il fischio delle armi attivate dalla vicina postazione d’artiglieria tedesca. Raccolsi in fretta e furia le mie poche cose e le infilai nello zaino. Mi resi conto che i Russi erano ormai a pochissima distanza, che il loro ingresso in Berlino era soltanto questione di minuti. Pensai compiaciuto che per noi prigionieri era imminente l’ora di lasciare definitivamente il campo e la Germania. A un certo punto abbandonai tutto e scappai verso il rifugio senza pensarci su un solo istante. Intense raffiche di mitragliatrici assordavano l’aria e proiettili vaganti piombavano dappertutto. Bisognava innanzitutto salvare la pelle ….

LA TRAGICA FINE DI GIUSEPPE FAZZARI

La mano tremante e incerta, propria di chi ha scarsa dimestichezza con la madre lingua e per di più si trova in pieno inferno tra bombe che piovono sulla testa e raffiche di mitragliatrici che sibilano nell’aria, s’è fermata qui. Un amaro, beffardo destino non ha permesso al ventiquattrenne caporalmaggiore Giuseppe Fazzari di chiudere con il tanto auspicato lieto fine il suo diario di guerra, un dettagliato e coinvolgente resoconto della drammatica esperienza vissuta sotto le armi nella seconda guerra mondiale. Ha stilato, giorno dopo giorno, la sua commovente “incompiuta” sulle paginette di uno sgualcito quaderno a righe nei ritagli di tempo non sottoposti ai rigidi controlli dei Tedeschi e, soprattutto, nei rari momenti in cui il debilitato fisico - reso tale da lunghi digiuni, da disumani trattamenti, da malattie, da condizioni ambientali decisamente ostiche - poteva concedergli un minimo di energie per tale sforzo e impegno. Su quelle paginette il Fazzari ha registrato, per come poteva e sapeva, quanto gli è passato sotto gli occhi durante il servizio militare, prima in Grecia, dove era stato assegnato il suo 48° Reggimento Artiglieria, e poi da prigioniero degli ex alleati tedeschi nei campi di concentramento di Luckenwalde e di Berlino. In particolare il racconto è un susseguirsi di fatti e circostanze che evidenziano il trattamento disumano, spesso anche spietato, cui quelle migliaia di prigionieri di varia nazionalità furono sottoposte dagli aguzzini di Adolf Hitler nei circa due anni di detenzione nei campi recintati da alte reti e filo spinato, controllati interrottamente nelle ventiquattro ore da guardie armate di mitragliatrici e piazzate su alte torrette dotate di potenti fari per le ore notturne. Lo stato psico-fisico del Fazzari e dei tantissimi altri prigionieri, italiani e non, era al limite dell’umana resistenza. Questo perché il clima quasi polare da affrontare con indumenti logori e inadeguati, l’alimentazione insufficiente (si andava spesso a rovistare tra i rifiuti in cerca di altra roba commestibile da mettere nello stomaco!), i decorsi delle malattie senza il supporto di medicine e, per giunta, il massacrante lavoro nelle fabbriche per soddisfare il crescente fabbisogno di armamenti voluto da Hitler etc., ne avevano minati il corpo e la mente. Rigide le disposizioni all’interno del campo dove vigevano condizioni e trattamenti contrari a quanto stabilito dalla Convenzione di Ginevra riguardo ai prigionieri di guerra. Per questi e altri ben più gravi misfatti compiuti dai militari tedeschi, inquadrati nelle file delle “S.S.” e soprattutto della ben nota “Gestapo” agli ordini del Fuhrer, alcuni dei maggiori responsabili sono finiti sul banco degli imputati, nel processo di Norimberga, subendo condanne a morte o a pene restrittive. Alcuni di essi ripararono sotto falso nome in varie nazioni, soprattutto nell’America del Sud. Altri, tra i quali il Ministro dell’Interno Heinrich Himmler, preferirono porre fine alla propria esistenza ingerendo capsule contenenti un letale veleno, il cianuro. Albert Speer, l’architetto di Hitler e colui che obbligò i prigionieri a lavorare nelle fabbriche di armi, finì in carcere a Spandau per scontarvi una pena a venti anni di reclusione. I cadaveri del capo supremo del nazismo Adolf Hitler e della compagna Eva Braun furono rinvenuti, il 30 di aprile del 1945, nel fortificato palazzo della Cancelleria, in Berlino, ultimo loro riparo dinanzi all’inarrestabile avanzata delle Forze di liberazione. Tornando al diario del caporalmaggiore, in esso manca la parola “fine”. Questo perché il giovane contadino di Bella si è dovuto presentare, suo malgrado, all’appuntamento con l’amaro destino. La sua giovane vita, infatti, è stata spezzata da una maledetta granata esplosa davanti al bunker all’interno del quale lui e altri, compresi civili e militari, ore prima avevano trovato riparo all’ennesima incursione aerea delle famose “fortezze volanti” anglo-americane. Un po’ per la curiosità, un po’ per la foga nel correre incontro alla liberazione annunciata dal trionfale ingresso dell’esercito russo nel capoluogo, Giuseppe Fazzari, in preda a comprensibile euforia, fu tra i primi a lasciare il rifugio. Si accompagnarono a lui tre - quattro prigionieri di nazionalità imprecisata (Vincenzo, uno dei fratelli del caporalmaggiore, apprese poi che erano polacchi) mentre tutti gli altri si attardarono prudentemente nel munito sotterraneo. Fazzari, guadagnata l’uscita, non ebbe il tempo di aprir bocca né di respirare la ventata di libertà che cominciava a soffiare su Berlino ridotta ormai a un cumulo di macerie. Non ebbe neppure l’opportunità di alzare gli occhi al cielo e rendere grazie a Chi lo aveva in più occasioni protetto dall’inferno di quella guerra, alla quale ben volentieri avrebbe fatto a meno di partecipare per coltivare il piccolo appezzamento di terreno, alla periferia di Nicastro, e vivere nell’affetto dei propri cari. Purtroppo, ad attenderlo davanti al rifugio era la “donna in nero” con la falce in mano. Lei, impietosa e indifferente verso colui che anelava a nuova vita, fu lesta a sferrare il colpo mortale su quel corpo provato da patimenti e da malattie, spegnendone per sempre negli occhi e sulle labbra il sorriso e la speranza di un futuro diverso, appena intravisto all’orizzonte. La scheggia impazzita di una granata, fendendo l’aria ad altezza d’uomo, lo centrò in pieno petto. Altri spezzoni del micidiale ordigno falciarono quei malcapitati polacchi i cui corpi, dilaniati e senza vita, finirono sul selciato segnato da rivoli purpurei. Il caporalmaggiore non morì sul colpo, respirava ancora. Fiotti di sangue uscivano da quello squarcio, imbrunivano i logori indumenti e alimentavano la rossa chiazza che lambiva le suole consunte delle scarpe legate da pezzi di spago. Mani pietose, considerata la gravità della ferita, si limitarono ad accostare il giovane a un muretto. Un tenente medico di origini napoletane si prodigò nel tamponare la forte emorragia. Poi scosse il capo a significare che non vi era speranza alcuna di poter salvare quel giovane. Tra i primi soccorritori furono i conterranei: Vincenzo Curcio, Pietro Costantino e Domenico Tedesco, tutti addolorati per le gravissime condizioni del collega. A quella drammatica scena non assistettero i fraterni amici, il caporalmaggiore Santo Rocca e Giovanni Falvo, perché in quei giorni si trovavano per lavoro in un altro settore di Berlino. Essi soltanto giorni dopo furono informati della tragica sorte toccata al loro sfortunatissimo commilitone. Ormai prossimo a esalare l’ultimo respiro, tra le lacrime che ne rigavano il pallido volto, Giuseppe Fazzari si rivolse ai presenti, che lo assistevano con premura e parole di conforto, e li supplicò di recarsi, una volta tornati in Calabria, nella sua Bella di Nicastro e di riferire agli amatissimi genitori queste ultime parole Non vi ho mai dimenticato, vi amo tanto, pregate per me. Poco dopo i suoi occhi, fissi nel vuoto e lavati da copiose lacrime, guardarono lontano e videro, sia pure per qualche istante e con i contorni sfumati, le dolci immagini di papà Giorgio e di mamma Annunziata. Poi si sono spenti in quella mnemonica “nuvola” dispensatrice di gioia e di serenità. Giuseppe aveva soltanto ventiquattro anni. Della sua accorata preghiera in punto di morte se ne fece carico e latore un altro italiano prigioniero dei Tedeschi, Giuseppe Pucci, quarto dei sedici figli avuti dall’ebanista Vincenzo e dalla consorte Anna Ferrise, famiglia nota in città e in tutto il circondario non solo per la numerosa prole quanto soprattutto perché composta di abili e affermati artigiani. Pucci, oggi novantatreenne, risiede in Brockton (USA) dove emigrò negli anni immediatamente successivi al rientro dalla Germania. Oltre oceano egli vive con la moglie e tre figli. Avrei voluto sentire dalle sue labbra il racconto di quei tristi momenti e conoscere eventualmente altre e più dirette testimonianze su quella tragica vicenda, ma non è stato possibile avere un contatto telefonico con lui data l'età e gli immancabili acciacchi. Preziosa, seppur logicamente limitata, la collaborazione fornita da un fratello di Pucci, Salvatore, anche lui valente ebanista in pensione con domicilio in un vicoletto di via Carducci, a Lamezia. Secondo le frammentarie notizie avute da quest’ultimo, quel 21 aprile del 1945 suo fratello Giuseppe stava girovagando per Berlino, incerto sul da farsi dopo l’entrata dei Russi nella città, quando notò il gruppetto di persone chine su un ferito. Incuriosito, si avvicinò e riconobbe nel moribondo il collega di Bella. Provò subito una gran fitta al cuore. Commosso e rattristato, ne raccolse le ultime volontà giurando che avrebbe mantenuto fede alla promessa. Il suo era un compito che ben volentieri avrebbe fatto a meno di svolgere, ma non poteva tirarsi indietro. Una volta riguadagnata la natia terra, si presentò in casa dei coniugi Giorgio e Annunziata Fazzari ai quali riferì le tragiche circostanze del decesso e con esse le commoventi, ultime parole loro dedicate da Giuseppe. Notizie che gettarono nella disperazione più cupa sia quei poveretti sia i loro figli, tra i quali Vincenzo e Domenico attuali commercianti in Lamezia. Le ceneri dello sventurato caporalmaggiore, riportate in Italia nel 1973, riposano nella cappella di famiglia. Il suo nome è stato inciso nella stele marmorea che fa da sfondo alla bronzea statua del Monumento ai Caduti e che rende onore a tutti coloro i quali hanno speso la propria vita per la Patria e per la pace. Le poche cose appartenute allo sventurato giovane invece sono state raccolte da alcuni commilitoni del 48° Reggimento Artiglieria nell’immediatezza del tragico evento per essere consegnate ai suoi familiari. Tra quelle preziose “reliquie” il manoscritto dato alle stampe per offrire ai lettori una diretta, autentica testimonianza di uno dei più discussi e tragici eventi del secolo scorso; soprattutto per rendere un altro piccolo tributo alla memoria del giovane contadino di Bella la cui breve esistenza, provata da tante sofferenze e bisognosa ancora degli affetti familiari, è stata interrotta tragicamente da un maledetto “colpo basso”del destino.
 DEMETRIO RUSSO











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Note sull'autore
DEMETRIO RUSSO - Pubblicista, Direttore di Banca in pensione
Tel. 0968.442206 - (rudeme@alice.it)
88046 LAMEZIA TERME
Corrispondente sportivo da Lamezia Terme della “Gazzetta del Sud” di Messina, dal 1958 al 1994. Ha trasmesso servizi a vari quotidiani, in occasione d’importanti manifestazioni ospitate in città e nel circondario, quali: incontri internazionali di pugilato, tornei di basket e di pallavolo, “europei” di biliardo, soste e allenamenti infrasettimanali di squadre di calcio di serie A e B, alla vigilia di rispettivi impegni di campionato. Dal 2005 sul periodico locale “Storicittà” cura una sua rubrica, dal titolo “Personaggi nostrani tra storia e umorismo”, in cui traccia un profilo biografico di quei Lametini del passato, più o meno recente, protagonisti di storielle e aneddoti curiosi. Alcuni anni addietro, su esplicita richiesta dell’imprenditore Domenico Fazzari, ha raccontato in un libro la drammatica prigionia e la tragica fine (21 aprile 1945) del fratello Giuseppe avvenute in Germania, durante la II guerra mondiale. Fatti e circostanze dei drammatici momenti, vissuti dallo sfortunato caporalmaggiore in un campo di prigionia tedesco, sono stati attinti dal diario che lo sfortunato militare ha vergato nei due anni trascorsi in quell’inferno. Altri particolari, come il tragico decesso del giovane, centrato in pieno petto da una granata, sono stati riferiti al pubblicista da un altro suo fratello, il commerciante Vincenzo.
Il drammatico racconto è riproposto nel libro "FIORI MISTI" e, a sinistra, nell'elenco "Storie e Storielle” sotto il titolo: Diario e morte di un prigioniero.
***L’autore, Demetrio Russo, è coniugato con l’ins. Francesca Diaco, dalla quale ha avuto quattro figli e da questi sei nipoti. A loro la dedica dei libri.





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Il Caporalmaggiore Giuseppe Fazzari