2 - IL MARESCIALLO AGOSTINO RUSSO



Negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale, l’amore per la patria coinvolse tantissimi italiani, anche padri di famiglia, mandati in Africa da chi, per ambizione e spirito di emulazione, pensava di far “grande” l’Italia mediante conquiste coloniali, sulla scia di altre nazioni. Un generalizzato entusiasmo correva tra i più giovani, specialmente al Sud, coinvolgendoli in una spirale d’illusioni e di drammatici eventi. Per essi indossare la divisa e partire alla conquista di terre da annettere al Paese era un evento da cogliere senza pensarci su un istante. C’era in quei giovani anche tanta voglia di emanciparsi, di uscire da una situazione d’incertezza economica e di difficoltà quotidiane per niente trascurabili.
In effetti, a quei tempi la vita era dura, specialmente nei piccoli centri. Nelle famiglie meno abbienti si compivano i classici salti mortali per mandare avanti la baracca. I contadini lavoravano piccoli appezzamenti di terra, riuscendo, a stento e dopo tanta fatica, a produrre ortaggi e cereali per il proprio nucleo familiare, in molti casi comprendente numerosa prole. Gli artigiani dovevano sgobbare sodo per soddisfare le richieste dei loro clienti e rimediare il denaro appena sufficiente per far fronte alle più impellenti necessità in famiglia. Molti certamente ricorderanno che soltanto poche persone potevano permettersi, per esempio, più abiti e più paia di scarpe durante l’anno, quando gli altri invece dovevano attendere il mese di giugno, in occasione delle festività di Sant’Antonio e dei Santi Pietro e Paolo, per farsi cucire l’abito nuovo, che era trasferito da padre in figlio e da questi al fratello più piccolo. I ragazzi andavano a garzone presso botteghe di artigiani per apprendere mestiere o per togliersi dai piedi dei grandi. Per compenso ricevevano poco e niente. Soltanto in occasione di feste importanti rimediavano piccole regalie di denaro con cui togliersi qualche sfizio. Molti di essi attendevano con impazienza il passaggio, davanti casa, del gelataio con quel caratteristico carrozzino a tre ruote per metà bicicletta (la parte posteriore) e per l'altra metà cassonetto simile alla prua di una barca con coperchio superiore. All’interno del cassonetto trovavano posto due pozzetti metallici con coperchio sagomato, a forma di cono, con dentro il gustoso gelato al limone; entrambi i contenitori erano mantenuti a bassa temperatura da blocchi di ghiaccio acquistati presso la ditta Benincasa, in piazza Sacchi. Pochi ragazzi, avendo in tasca le monete necessarie per l’acquisto, gustavano quei coni con gli occhi e con la bocca. Tutti gli altri potevano concedersi solo occhiate di comprensibile invidia. Per qualcuno, meno sfortunato, talvolta otteneva una rapida leccatina dal generoso e … ricco amichetto. Non soltanto il gelato, pure il succoso loto e le more rosse erano nei sogni di quei ragazzini. Al tempo delle more, prodotte prevalentemente in collina, il contadino scendeva in città reggendo sulla testa un contenitore d’argilla, noto come “a limba”, con dentro gli squisiti frutti, “a mura nìgura” (le more sanguigne), immersi nel loro liquido di color porpora e venduti nelle quantità dosate con un piattino da tazzina da caffè. E tutti lì ad attenderlo.
A parte qualche momento di relativa spensieratezza, soprattutto in ambito giovanile, quei tempi erano davvero duri e difficili. La decisione, presa dall’alto, di allestire un esercito da inviare in Africa a conquistare territori, fu vista di buon occhio da tanti giovani attratti da un pasto sicuro e forse anche da qualche soldo per le sigarette. Non mancarono, in tantissimi giovani, stimoli diversi come, ad esempio, quello di andare fuori dalla propria città o compagna e conoscere gente e luoghi nuovi. E c’era pure chi aveva voglia di indossare una divisa con nastrini e stellette, magari per fare colpo sulle ragazze. Alla base di tutto in quei giovani vi era la volontà di rendersi utili alla Patria, prendendo ad esempio quei tanti italiani, uomini e donne, che avevano offerto per le sue necessità belliche persino le fedi d’oro e i propri gioielli.
La spensieratezza che si riscontra dalle loro foto, conferma lo stato d’animo e l’entusiasmo con cui quei “soldatini” rispondevano o si offrivano all’invito di prendere armi e bagagli e partire verso lidi sconosciuti. Conoscevano poco o nulla dei programmi del regime e di quel che li attendeva in guerra. Nel deserto africano, in un ambiente difficile e poco ospitale, sono stati chiamati a combattere contro avversari con ben altro equipaggiamento e con ben altri mezzi bellici, e tanti di loro hanno lasciato sulla rovente sabbia la propria vita. In pochi sono riusciti a salvare la pelle e a far ritorno a casa, felici ma delusi della loro esperienza sul fronte e, in alcuni casi, segnati irrimediabilmente nel corpo e nello spirito. L’umanità e la generosità di quelle “matricole” dell’esercito, scaricate da navi e da aerei sul continente nero, sono però emerse in tutta la loro forza e brillantezza nei rapporti con le popolazioni conquistate. E’ stato questo uno dei pochi aspetti positivi dell’occupazione italiana in Africa. L’atteggiamento verso gli indigeni, già abbastanza provati da povertà, fame, malattie e quant’altro, è stato improntato sempre a sentimenti cristiani e umanitari. Quei militari hanno offerto viveri e risolto piccoli problemi, assicurando alla gente del posto un po’ di sollievo e di relativa serenità.
Tra quei militari, col grado di maresciallo, vi era mio padre Agostino, un uomo la cui vita è stata costantemente ispirata da sentimenti di umanità, di rispetto verso gli altri e di generosità verso i bisognosi. L’esperienza vissuta in Africa tra quella gente disperata, segnata dalla fame e dalle malattie, ne è una valida testimonianza. Al suo rientro a casa, avvenuto a guerra finita e dopo tante peripezie, il sottufficiale aveva con sé delle foto, una delle quali, custodita gelosamente, lo ritrae con alcuni ragazzini di colore, felici di ricevere da quel militare le famose “gallette”, un gustoso biscotto a forma di mattonella in dotazione ai militari italiani. Per il resto il maresciallo avrebbe voluto dimenticare tutto: le battaglie, le detonazioni, i morti, i feriti, le sofferenze, la lontananza dai propri affetti, spesso anche la nostalgia e la solitudine. E per tale ragione che raramente negli anni post-bellici ha aperto con altri, compresi i propri cari, il discorso sul periodo trascorso sotto le armi. Ha preferito mettere una pietra sul passato e su una guerra che, per il suo evolversi e per le sue tragiche conseguenze, non ha in seguito del tutto condiviso. Lui e i tanti giovani partiti con grande entusiasmo dai rispettivi paesi, alla fine si sono ritrovati coinvolti in una vicenda, di cui sono stati testimoni e vittime, non protagonisti.
Sulle loro spalle, alla fine, è rimasto il peso di una negativa esperienza e di una cocente delusione. Finito l’incubo, tornata la pace, i pochi giovani assistiti dalla Provvidenza e dalla buona sorte hanno fatto ritorno a casa e alla vita. Nel riabbracciare la moglie Santina e i cinque figli, Agostino Russo ha colto nei loro occhi la gioia per il suo atteso ritorno e con loro ha ripreso il cammino della vita, bruscamente interrotto - per fortuna per un periodo relativamente breve - dai tragici eventi, sforzandosi di dimenticare il passato e di volgere lo sguardo al futuro con ritrovata serenità e tanta fiducia nella Divina Provvidenza. Demetrio Russo 


2 commenti:

  1. Chao zio sono yo Carmen, o cominchato a legere un po sul nono... erano tuti molto coragosi.

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  2. Carissima Carmen,

    sono davvero compiaciuto di sapere che stai leggendo l'articolo sul tuo bisnonno, una persona per bene e generosa, di cui noi anziani abbiamo un bellissimo ricordo. A te e ai tuoi un caldo abbraccio e l'augurio di un radioso avvenire. Ciao cara, zio Demetrio

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Note sull'autore
DEMETRIO RUSSO - Pubblicista, Direttore di Banca in pensione
Tel. 0968.442206 - (rudeme@alice.it)
88046 LAMEZIA TERME
Corrispondente sportivo da Lamezia Terme della “Gazzetta del Sud” di Messina, dal 1958 al 1994. Ha trasmesso servizi a vari quotidiani, in occasione d’importanti manifestazioni ospitate in città e nel circondario, quali: incontri internazionali di pugilato, tornei di basket e di pallavolo, “europei” di biliardo, soste e allenamenti infrasettimanali di squadre di calcio di serie A e B, alla vigilia di rispettivi impegni di campionato. Dal 2005 sul periodico locale “Storicittà” cura una sua rubrica, dal titolo “Personaggi nostrani tra storia e umorismo”, in cui traccia un profilo biografico di quei Lametini del passato, più o meno recente, protagonisti di storielle e aneddoti curiosi. Alcuni anni addietro, su esplicita richiesta dell’imprenditore Domenico Fazzari, ha raccontato in un libro la drammatica prigionia e la tragica fine (21 aprile 1945) del fratello Giuseppe avvenute in Germania, durante la II guerra mondiale. Fatti e circostanze dei drammatici momenti, vissuti dallo sfortunato caporalmaggiore in un campo di prigionia tedesco, sono stati attinti dal diario che lo sfortunato militare ha vergato nei due anni trascorsi in quell’inferno. Altri particolari, come il tragico decesso del giovane, centrato in pieno petto da una granata, sono stati riferiti al pubblicista da un altro suo fratello, il commerciante Vincenzo.
Il drammatico racconto è riproposto nel libro "FIORI MISTI" e, a sinistra, nell'elenco "Storie e Storielle” sotto il titolo: Diario e morte di un prigioniero.
***L’autore, Demetrio Russo, è coniugato con l’ins. Francesca Diaco, dalla quale ha avuto quattro figli e da questi sei nipoti. A loro la dedica dei libri.





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Il Caporalmaggiore Giuseppe Fazzari