4 - IL SAGRESTANO DI SAN DOMENICO



Abitava in un piccolo fabbricato in prossimità della chiesetta dedicata alla “Madonna delle cucchiarelle” nella parte alta della città di Lamezia Terme, già Nicastro, quasi a ridosso del castello che fu di Federico Barbarossa. La sua era una famiglia numerosa: marito, moglie e otto figli (sei maschi e due femmine) il più piccolo dei quali, Vincenzo, che porta lo stesso nome del padre, nato appena tre giorni dopo la sua morte avvenuta nel lontano ’959. Vincenzo Gagliardi - è lui che ha trovato spazio nella memoria mia e di tanti Lametini in età non più giovanile - era zoppo per un ginocchio fuori uso che lo tormentava giorno e notte. Ogni mattina, alle prime luci dell’alba, scendeva dal rione San Teodoro per recarsi in centro. Di lavori ne svolgeva due: era sagrestano presso la chiesa di San Domenico e quella nel rione Timpone, e prestava servizio con mansioni varie presso l’ex hotel Nicotera, più conosciuto come “albergo Mazziotti” di proprietà di Francesco Falvo d’Urso e poi dei figli Mario e Renato.
Il tratto di strada da percorrere, spesso anche quattro volte il giorno, lo affaticava parecchio; soprattutto al rientro a casa che comportava, in aggiunta alla stanchezza da lavoro, il dover coprire in salita il tratto di strada abbastanza lungo e, per giunta, intervallato da spossanti rampe di scale in nuda pietra. Durante il tragitto eseguiva frequenti brevi soste per prendere fiato. Mai un lamento o un’imprecazione. Il carattere semplice, ben temprato e la devozione per la Madonna delle Grazie gli facevano accettare e superare questi e altri sacrifici. Era tanto devoto alla Madre di Gesù che, quando si trovava in chiesa, nel rione Timpone, non trascurava mai di rivolgere uno sguardo e un deferente pensiero allo stupendo dipinto raffigurante la Vergine di Costantinopoli; quadro commissionato a suo tempo da suo padre e da anni sparito da una delle pareti laterali della navata e del quale si disconosce l’attuale dimora.
Per mandare avanti la famiglia in quegli anni di grandi e diffuse difficoltà -
sto parlando del periodo successivo alla seconda guerra mondiale - occasionalmente si attivava pure nei lavori più disparati, svolgendoli sempre con dignità e impegno. Era grato al Signore per la ricchezza degli affetti familiari e ringraziava il Cielo di ogni piccola cosa che quotidianamente rimediava per la famiglia. Anche un piccolo uovo o un piccione di colomba recuperato, di tanto in tanto, nelle feritoie del vecchio campanile, per lui non era altro che un dono della Provvidenza. Vincenzo Gagliardi, il sagrestano di San Domenico che tantissimi concittadini ricorderanno sicuramente, è da considerare un personaggio autentico della Nicastro degli anni trascorsi, pur non appartenendo egli a classi privilegiate o benestanti. In tanti lo ricordano con simpatia. La sua figura e il suo carattere sono rimasti nitidamente impressi nella mente di ex coetanei. Di lui alcuni rammentano tante altre cose belle ed episodi che - oggi più di ieri - ne esaltano maggiormente la semplicità e la laboriosità.
Nei giorni festivi usciva di buon’ora e, passando per via SS. Salvatore (strada che porta al castello normanno), bussava ai portoncini di due abitazioni. Le padrone di casa ne aprivano subito l’uscio perché, conoscendo la puntualità del signor Vincenzo, si alzavano per tempo. Ciascuna svegliava uno dei figli, allora di età tra gli undici e i tredici anni (siamo nel biennio ‘950-51); lo vestiva, lo forniva di merendina (un pezzo di pane con del formaggio e un paio di fichi infornati); lo colmava di amorevoli attenzioni accompagnate dalle solite raccomandazioni di comportarsi bene. I due ragazzini erano pronti, anche se mezzi addormentati, a seguire il sagrestano sull’abituale percorso: via SS. Salvatore, attraversamento di Largo Statti, giù per la scaletta che immette sulla parte bassa di via S. Lucia all’altezza dell’ex sede della Lux (associazione giovanile di Azione Cattolica) passando per Largo Dano, poi via Garibaldi e infine Corso Numistrano con destinazione la chiesa di San Domenico. Uno dei due, Mario, è deceduto da diversi anni per una grave malattia; l’altro, Giovanni, un bravo artigiano da qualche tempo in pensione.
Questi si è mostrato disponibile a raccontare momenti della sua fanciullezza legati ai contatti con Vincenzo, uno dei più noti sagrestani del tempo, di cui conserva un piacevolissimo ricordo. Essendo egli un tipo piuttosto riservato, nel riferire i trascorsi rapporti con Mario e il Gagliardi, ha preteso riserbo sulla sua identità. Nella chiesa di San Domenico i due ragazzini a turno servivano la Santa Messa e attivavano i mantici per dare fiato alle canne dell’organo. -“Com’era faticoso - confidava l’ex chierichetto - abbassare alternativamente quelle lunghe stanghe di legno! Ci dovevi salire sopra con la pancia e far peso con tutto il corpo per spingerle giù, quasi a toccare il pavimento. E non potevi mica fermarti perché il maestro se ne accorgeva subito e ti sgridava”.
E a proposito di organo, Giovanni non ha dimenticato, dopo così lungo tempo, che sulla tastiera di quell’imponente strumento musicale scorrevano le agili mani del maestro Giacinto Greco, un musicista di grosso spessore, notissimo in città e nel circondario; tanto da essere chiamato a prestare la sua apprezzata opera in quasi tutte le chiese della Diocesi e, con maggior frequenza, in quella di Santa Caterina, in Corso Numistrano.
Mario e Giovanni per la Santa Messa domenicale servita nella chiesa di San Domenico, ricevevano cinque lire che il signor Gagliardi, d’intesa col parroco, prelevava di volta in volta dal cestino della questua. Essi se le dividevano e conservavano poi a casa nel proprio salvadanaio. Giovanni, stimolato dal piacere dei bei ricordi dell’infanzia, ha dischiuso la... finestra della propria memoria e tirato fuori altri momenti e fatti di quel periodo, sempre con riferimento ai contatti con i compianti Vincenzo e Mario.
In occasione della festa in onore del Santo, cui è intitolata la chiesa, lui e l’amichetto avevano nel cestino delle colazioni maggiorate rispetto agli altri giorni dovendosi trattenere oltre il solito orario per assistere i celebranti delle tredici SS. Messe in programma. Le ginocchia facevano maledettamente male, ma la prospettiva di rimediare un bel gruzzolo (65 lire da dividere in due) faceva sopportare loro dolore e stanchezza. Le cose però non andarono per il verso previsto e sperato.
 Il parroco e il signor Vincenzo, con quel traffico di fedeli in sagrestia e comprensibilmente indaffarati, non ebbero tempo e modo di pensare a quei piccoli stoici collaboratori, dimenticando di corrispondere la solita “paghetta”. I chierichetti, forniti di una sana e religiosa educazione, né quel giorno e neppure i successivi trovarono il coraggio di richiederla. E con le gambe indolenzite e le tasche vuote quel pomeriggio di festa (per gli altri, non per loro) fecero ritorno alle rispettive dimore con tanto di muso.
Di solito, a riaccompagnare i due ragazzini alle rispettive abitazioni, in via SS. Salvatore, era lo stesso Gagliardi che subito dopo ridiscendeva per prendere servizio in albergo dove si tratteneva fino al tardo pomeriggio. Da lì, poi, si portava nella vicina Chiesa di San Domenico a coadiuvare il parroco nelle funzioni vespertine. Giovanni ha rammentato altre chicche di quei tempi per lui indimenticabili. Nelle festività il signor Vincenzo, esentato dal prestar servizio in albergo, trascorreva l’intera giornata in chiesa per le nuove e aumentate incombenze, unitamente ai due chierichetti. Il pomeriggio quasi mai rinunciava alla solita mezz’oretta di... pennichella che si godeva distendendosi dentro un imponente catafalco, adagiato su due alti cavalletti; il sagrestano, basso di statura e condizionato dal ginocchio in disordine, riusciva a fatica a raggiungere quella sorta di sarcofago mediante una sgangherata scaletta. In un angolo della stanzetta, a poca distanza, quattro vecchi e grossi candelabri di legno e altri paramenti conferivano al locale, specialmente agli occhi dei chierichetti, un’atmosfera cimiteriale. Quei sacri arredi, in dotazione allora a tutte le chiese, stavano in una stanza-ripostiglio, a destra entrando, ed erano utilizzati in determinate funzioni: nella Settimana Santa o nelle ricorrenze di trigesimi e anniversari della morte di parrocchiani.
Il Gagliardi quel catafalco, imbottito e damascato, lo trovava comodo e accogliente. Il riposino pomeridiano, goduto all’interno di quell’aggeggio, era per lui un toccasana, un momento di salutare benessere, mentale e fisico, dopo lo stress e la fatica accumulati nella mattinata. Quel lugubre contenitore, dalla forma e dimensione di una bara, ai due ragazzi faceva una brutta impressione, incuteva loro tanta paura. Ragion per cui essi raramente assistettero a riti religiosi con quel tristo apparato in mezzo alla navata, né entrarono più nella stanza-ripostiglio per condividere col signor Vincenzo brevi pause nel... lavoro. In quei momenti Mario e Giovanni preferivano sistemarsi sui più tranquillizzanti, anche se meno comodi, gradini dell’altare o sulle panche dei fedeli dove qualche volta anche loro si addormentavano, per noia o per stanchezza, cullati dal silenzio di quelle sacre mura. à Demetrio Russo


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Note sull'autore
DEMETRIO RUSSO - Pubblicista, Direttore di Banca in pensione
Tel. 0968.442206 - (rudeme@alice.it)
88046 LAMEZIA TERME
Corrispondente sportivo da Lamezia Terme della “Gazzetta del Sud” di Messina, dal 1958 al 1994. Ha trasmesso servizi a vari quotidiani, in occasione d’importanti manifestazioni ospitate in città e nel circondario, quali: incontri internazionali di pugilato, tornei di basket e di pallavolo, “europei” di biliardo, soste e allenamenti infrasettimanali di squadre di calcio di serie A e B, alla vigilia di rispettivi impegni di campionato. Dal 2005 sul periodico locale “Storicittà” cura una sua rubrica, dal titolo “Personaggi nostrani tra storia e umorismo”, in cui traccia un profilo biografico di quei Lametini del passato, più o meno recente, protagonisti di storielle e aneddoti curiosi. Alcuni anni addietro, su esplicita richiesta dell’imprenditore Domenico Fazzari, ha raccontato in un libro la drammatica prigionia e la tragica fine (21 aprile 1945) del fratello Giuseppe avvenute in Germania, durante la II guerra mondiale. Fatti e circostanze dei drammatici momenti, vissuti dallo sfortunato caporalmaggiore in un campo di prigionia tedesco, sono stati attinti dal diario che lo sfortunato militare ha vergato nei due anni trascorsi in quell’inferno. Altri particolari, come il tragico decesso del giovane, centrato in pieno petto da una granata, sono stati riferiti al pubblicista da un altro suo fratello, il commerciante Vincenzo.
Il drammatico racconto è riproposto nel libro "FIORI MISTI" e, a sinistra, nell'elenco "Storie e Storielle” sotto il titolo: Diario e morte di un prigioniero.
***L’autore, Demetrio Russo, è coniugato con l’ins. Francesca Diaco, dalla quale ha avuto quattro figli e da questi sei nipoti. A loro la dedica dei libri.





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Il Caporalmaggiore Giuseppe Fazzari