2 - IL MAGGIORDOMO ANSELMO



A cavallo della seconda guerra mondiale un aitante giovane prestava servizio, con l’incarico di maggiordomo, nel palazzo dei baroni Statti sito ai piedi del castello Normanno; palazzo che si affaccia sull’omonima via in tutta la sua imponenza, nonostante che il tempo e le intemperie ne abbiano offuscato l’antico splendore. Anselmo Cosentino, questo il suo nome, apparteneva a una famiglia numerosa e dai modesti mezzi, accentuati anche dal difficilissimo periodo post-bellico. Suo padre, Rosario, aveva sposato Carolina Gigliotti e da lei aveva avuto sette figli: quattro maschi (Francesco, Giuseppe, Ferdinando e Anselmo) e tre femmine (Antonietta, Angela e Pasqualina). I Cosentino avevano dimora nella casetta insistente in un piccolo appezzamento di terreno in contrada Magolà, alle spalle della Chiesa del Soccorso, proprio all’imbocco della strada per Serrastretta, sulla destra. Il signor Rosario riusciva dignitosamente a mandare avanti la baracca svolgendo i più disparati lavori e, nei ritagli di tempo libero, provvedendo alla coltivazione di piante da frutto e di ortaggi nel fazzoletto di terra intorno alla casa. Sua moglie, la signora Carolina, una brava massaia, badava amorevolmente alla crescita e all’educazione dei figli; e, per arricchire il quotidiano frugale pasto, accudiva con la collaborazione delle tre figlie alla gestione di un pollaio comprendente una dozzina di galline e qualche galletto. Allevava pure il maiale, con le cui carni preparava insaccati e autentiche leccornie da razionare nell’anno.
Divenuti grandicelli, i maschi si diedero da fare per aiutare i genitori, andando a lavorare alla giornata oppure in qualche bottega d’artigiano. Il più piccolo, Anselmo, nato il 10-9-1913, aveva trovato sistemazione presso gli Statti ed era orgoglioso del lavoro e del ruolo affidatigli. Egli in certo senso sovrintendeva alla servitù e al buon andamento della casa baronale. Quando giungevano delle visite al palazzo, era felicissimo di sfoggiare la sua appariscente e impeccabile livrea che tutti ammiravano con occhi spalancati. Essa era di color rosso porpora, bordata con nastri e fettucce dorate; l’abbigliamento era completato da camicia e guanti bianchi, da un paio di calzini pure bianchi e da scarpe nere e lucide sormontate da argentee fibbie. In testa il maggiordomo portava una bombetta nera. In questi panni il buon Anselmo si trovava perfettamente a suo agio e così vestito si compiaceva di esibirsi, assumendo un comportamento compunto e signorile, davanti al portone d’ingresso del palazzo dove sostava in attesa di ricevere gli ospiti della nobile famiglia.
La marchesa Donna Checchina D’Ippolito era un’assidua frequentatrice di palazzo Statti, che raggiungeva a bordo di una splendida carrozza trainata da quattro maestosi cavalli lipizzani dal candido mantello, quasi identici tra loro da sembrare ognuno la copia dell’altro. I ragazzini del rione sgranavano gli occhi nell’ammirare questa scena da “mille e una notte”. Dall’uomo in livrea che vedevano spesso, erano affascinati. Nutrivano verso quel “nobile”, tale lo ritenevano, una sorta di soggezione. D’altra parte, il ricco abbigliamento e i modi gentili e riguardosi del signor Anselmo verso di loro e verso tutti, rafforzavano in quei giovanetti e nella gente del posto sentimenti di stima e di massimo rispetto. All’arrivo della marchesa D’Ippolito - e così anche di altri esponenti della "Nicastro-bene" come, ad esempio, le baronesse Francesca e Ninfa Nicotera e i coniugi Saladini da Bella legati da parentela - il maggiordomo con una mano si toglieva rispettosamente il cappello e con l’altra apriva lo sportello della carrozza. Abbozzava poi un inchino verso la blasonata ospite e le porgeva il braccio destro per aiutarla a scendere. Il ben educato Anselmo accompagnava orgogliosamente la nobildonna lungo la bella scalinata di marmo che porta al salone degli specchi posto al secondo piano, lasciando al cocchiere, sceso nel frattempo da cassetta, il compito di richiudere lo sportello e di curare i cavalli allentando loro le briglie e fornendoli di sacchetti con la biada.
Anche quando erano gli Statti a dover rendere visita ad altri, l’attento e compito cerimoniere faceva predisporre dallo stalliere una delle carrozze di famiglia e nella sua smagliante livrea prendeva posto su in cassetta, accanto al cocchiere, compiacendosi dello sguardo ammirato dei tanti ragazzi che giocavano in strada lungo il percorso. Poco prima si era premurato, con tutto il garbo e le attenzioni abituali, di far accomodare in carrozza la baronessa Giuseppina Mazzitelli, una delle più belle e ammirate signore di quei tempi. Donna Giuseppina, scomparsa da qualche anno, viveva fino in un appartamento del palazzo, circondata dall’affetto del figlio Ferdinando, della nuora Luisa e dei nipoti. Il consorte, il barone Don Alberto, ex pilota di auto da corsa e persona dalla grande umanità e generosità, morì prematuramente colpito da infarto nell’aprile del ’60. Aveva soltanto cinquantadue anni.
Della casa nobiliare di via Statti il simpatico e aitante maggiordomo si sentiva parte integrante. Era particolarmente legato e riconoscente a ciascun membro della famiglia. Quando parlava di essa, era solito usare il plurale maiestatis: “Noi... ”. Scrupoloso nel lavoro, disponibile per qualsiasi mansione che di volta in volta gli era affidata. Modi gentili e carattere mite. Gli abitanti del rione gli volevano bene. I contadini del posto gli erano riconoscenti perché consentiva loro di utilizzare – esclusi i giorni delle visite e, ovviamente, quelli di pioggia o di cielo coperto - l’ampio piazzale, in cemento levigato, prospiciente il portone d’ingresso del palazzo. Essi trovavano quel lastricato ideale per stendere a essiccare fagioli, fave, grano, mais e altri prodotti dei loro campi.
Di fronte al portone, a circa tre metri di distanza, nel bel mezzo della piazzetta era stata eretta, quasi a protezione del fabbricato e dei suoi occupanti, una chiesetta dedicata alla Madonna la cui immagine, di antica e pregevole fattura, s’intravedeva appena per le poche e sbiadite tracce di pittura su un riquadro di rustico intonaco. Alla base del piccolo tempio un altarino di marmo pregiato al quale si accedeva da un ornamentale cancelletto di ferro battuto. In seguito quella chiesetta è stata rimossa e ricostruita, nella stessa dimensione e forma, ai bordi della strada, di fronte all’ala sinistra del palazzo, per consentire un più agevole e meno pericoloso traffico veicolare. Ovviamente l’affresco andò perduto e fu sostituito con un bassorilievo di marmo con il volto della Madonna. Il signor Anselmo, religiosissimo, ogni qualvolta apriva il portone volgeva gli occhi alla sacra immagine, abbozzava un deferente inchino accompagnato dal segno della croce. Si piazzava poi davanti all’ingresso del palazzo ad attendere il previsto arrivo di un ospite. La gente che passava per Largo Statti non staccava gli occhi dal bel maggiordomo e, soprattutto, dalla sua regale livrea. E lui, compiaciuto ed anche un tantino imbarazzato - quanta modestia e bontà! - salutava tutti con un gratificante inchino e un appena accennato sorriso. Rimase al servizio degli Statti fino a novembre del '46, quando quel ruolo cominciava a stridere con i tempi e con le tensioni politico-sociali del dopo guerra. Trovò poi un lavoro meno... aristocratico, più semplicemente ospitalità presso un suo compare, tale Saverio Perri, più noto come “
’u battali”, soprannome ereditato da un antenato per la sua attività di deviatore delle acque destinate all’irrigazione dei giardini. Il Perri abitava nella stessa via Statti, a poche centinaia di metri dal palazzo, sull’altro lato del fiume ed era proprietario di un piccolo terreno in località Malaspina, che coltivava con l’aiuto di Anselmo.
Erano tempi di magra e non tutti potevano permettersi un pasto caldo. Per l’ex maggiordomo, impegnato nella campagna a usare vanga e a estirpare erbacce, niente paga ma solo vitto e qualche regalia. Nessun contributo, quindi, al fabbisogno della famiglia. In questa situazione di assoluta precarietà non gli era mai passata per la testa l’idea di metter su famiglia. Un bel giorno, accogliendo l’invito della sorella maggiore Antonietta, emigrata da qualche tempo in Argentina, decise di imbarcarsi su un piroscafo nel porto di Napoli ed espatriare in quel Paese in cerca di miglior fortuna. Con sé aveva la classica valigia di cartone legata con lo spago e, con l’animo aperto alle emozioni e alla speranza, partì per i nuovi lidi.
Il lavoro in America del Sud - rammentava una nipote, figlia del fratello maggiore Francesco - lo impegnò molto e guadagnava il giusto per una vita decorosa. A rivedere la terra natia e i parenti rimasti a Nicastro, venne varie volte. Neppure in Argentina ebbe tempo e voglia di prender moglie. Tra le altre cose, l’affetto e l’ospitalità della sorella Antonietta e dei suoi congiunti contribuirono a... distrarlo da quell’obiettivo. Negli ultimi tempi, dati gli scarsi mezzi di comunicazione allora esistenti, i contatti tra le due sponde dell’oceano si diluirono e del signor Anselmo si ebbero sempre meno notizie. Si seppe soltanto della sua morte, della quale nessuno rammenta la data. Alcuni parenti che risiedono in Lamezia, in località Magolà, poco distante la vecchia e malridotta casetta dei Cosentino, ricordano poco e niente. Di lui, tra l'altro, hanno solo qualche sbiadito ricordo.
Dalla memoria dei tanti ragazzini, che negli anni ’40 giocavano davanti al palazzo baronale in via Statti, il tempo e l’età non hanno invece cancellato la “l’aristocratica” figura dell’ex maggiordomo e, soprattutto, la sua splendida livrea color porpora.

à Demetrio Russo

Nessun commento:

Posta un commento

Note sull'autore
DEMETRIO RUSSO - Pubblicista, Direttore di Banca in pensione
Tel. 0968.442206 - (rudeme@alice.it)
88046 LAMEZIA TERME
Corrispondente sportivo da Lamezia Terme della “Gazzetta del Sud” di Messina, dal 1958 al 1994. Ha trasmesso servizi a vari quotidiani, in occasione d’importanti manifestazioni ospitate in città e nel circondario, quali: incontri internazionali di pugilato, tornei di basket e di pallavolo, “europei” di biliardo, soste e allenamenti infrasettimanali di squadre di calcio di serie A e B, alla vigilia di rispettivi impegni di campionato. Dal 2005 sul periodico locale “Storicittà” cura una sua rubrica, dal titolo “Personaggi nostrani tra storia e umorismo”, in cui traccia un profilo biografico di quei Lametini del passato, più o meno recente, protagonisti di storielle e aneddoti curiosi. Alcuni anni addietro, su esplicita richiesta dell’imprenditore Domenico Fazzari, ha raccontato in un libro la drammatica prigionia e la tragica fine (21 aprile 1945) del fratello Giuseppe avvenute in Germania, durante la II guerra mondiale. Fatti e circostanze dei drammatici momenti, vissuti dallo sfortunato caporalmaggiore in un campo di prigionia tedesco, sono stati attinti dal diario che lo sfortunato militare ha vergato nei due anni trascorsi in quell’inferno. Altri particolari, come il tragico decesso del giovane, centrato in pieno petto da una granata, sono stati riferiti al pubblicista da un altro suo fratello, il commerciante Vincenzo.
Il drammatico racconto è riproposto nel libro "FIORI MISTI" e, a sinistra, nell'elenco "Storie e Storielle” sotto il titolo: Diario e morte di un prigioniero.
***L’autore, Demetrio Russo, è coniugato con l’ins. Francesca Diaco, dalla quale ha avuto quattro figli e da questi sei nipoti. A loro la dedica dei libri.





FIORI MISTI - Storie di guerra e altro - disponibile su Amazon














Il Caporalmaggiore Giuseppe Fazzari